Un viale, con gli alberi d’autunno che si stanno spogliando e si preparano all’inverno, conduce all’ingresso di una graziosa cittadina del Land della Turingia: Weimar. Il lieve dondolio delle foglie che scivolano a terra, evoca una malinconica e fragile bellezza che sfiorisce, come fu per la Germania degli anni Venti.
Nel peregrinare dentro l’orrore dei Campi di concentramento nazisti, giungiamo, anni or sono con mia moglie, in quel paesaggio segnato dal tempo e anticamera – non solo geografica e stradale, ma anche storica e politica – di Buchenwald, che dista solo 8 chilometri.
Weimar è un ridente panorama urbano, piccolo, pulito e organizzato, proprio come si attende il turista, che qui arriva, nutrito dal mito dell’efficienza e della precisione teutonica. La città, pur avvolta ancora in certe sfumate cromature pastello che ricordano la vecchia D.D.R. (Repubblica Democratica Tedesca, la ex Germania Est), ci accoglie sfoderando tutti i suoi pregi e, perfino, esibendo uno spettacolo notturno di luci proiettate sulle architetture delle case, in una mescolanza fra lo show dell’illuminotecnica moderna e la memoria del Bauhaus.
Weimar è la “Stadt” dove vissero Goethe, Lutero, Bach, Schiller, Wagner e Nietzsche. Adagiata sulle dolci e boscose colline della Germania centro-orientale, dista circa 300 chilometri da Berlino e possiede quel gioiello rococò della biblioteca “Anne Amalie”, culla della “Kultur” e patrimonio, come tutta la città, dell’UNESCO. Ma Weimar è anche – e forse soprattutto – altro. È una memoria fertile e un punto di svolta nella storia europea del XX secolo. Come scrive lo storico Johann Chapoutot, Weimar è talmente “viva che resuscita i morti e continua a porre interrogativi alla Germania e a tutte le democrazie.”
All’inizio del 1919 – la “grande guerra” è finita da poche settimane – la città, proprio per la sua vocazione culturale e la dimensione fortemente provinciale, viene individuata quale sede di quell’Assemblea costituente, eletta il 19 gennaio di quell’anno e per la prima volta nella storia tedesca a suffragio universale. Si deve dare una struttura nuova ad un “paese spaesato”, che non è più il Reich del kaiser Guglielmo II (1859-1941) ma non è ancora altro, attraverso un percorso politico ricco di contributi importanti e che porta alla Costituzione, qui votata il 31 luglio 1919 e, con essa, alla “repubblica” che nasce, a sua volta, l’11 agosto 1919.
Weimar rappresenta il volto migliore della Germania; incarna il suo spirito letterario, culturale e artistico con i suoi “Cafè”, le sue “Konditorei” e i suoi musei. Nei suoi parchi, Goethe, il poeta tedesco per eccellenza, raccoglie fiori ed erbe. Nelle sue birrerie cresce il confronto filosofico e si sviluppa l’“Aufklärung”, cioè l’illuminismo tedesco, che offre al mondo intelligenze ed elaborazioni straordinarie del pensiero. Fra le strette vie urbane e le case seicentesche non c’è traccia alcuna degli elmi chiodati, delle caserme e delle parate marziali del militarismo prussiano, quello che ha condotto testardamente al baratro del conflitto. Qui, fra alberi secolari e vialetti di ghiaia sottile, non esistono nemmeno le fabbriche e le lotte operaie di Berlino, culminate in quella “rivolta spartachista” che, dal 6 al 13 gennaio 1919 e sotto la guida di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, viene massacrata dai “Freikorps” (“Corpi Franchi”) del gen. Groener e del ministro degli Interni Roland Noske, in una sorta di guerra civile.
Il 1919 è un anno cruciale sul suolo tedesco. In aprile a Monaco di Baviera viene dichiarata la “repubblica dei soviet”, contro la quale si organizza una feroce repressione, a cura dell’esercito e dei “Freikorps”. Sono giorni concitati e confusi, nei quali prende forma anche un tentativo, peraltro fallito, di colpo di Stato (12 – 13 marzo 1920) che passa alla storia come “Putsch di Kapp”. Il tentato golpe, che prende il nome da uno dei suoi leader, il giornalista di estrema destra Wolfgang Kapp, viene fermato da un gigantesco sciopero generale che blocca l’economia e manda al collasso il governo golpista.
Tre anni dopo, nel 1923, una nuova crisi attraversa la Repubblica, quando questa non riesce più ad onorare i pagamenti delle riparazioni di guerra, stabiliti con il trattato di pace di Versailles. La Francia e il Belgio reagiscono occupando militarmente la regione industriale della Ruhr e prendendo il controllo di miniere e fabbriche. Provocano, in tal modo, una nuova ondata di scioperi che innescano, a loro volta, una dinamica iperinflazionistica, dovuta all’eccesso di stampa di valuta, che piega la Germania. Il “Papiermark” crolla. Nell’agosto del 1923, un dollaro equivale a un milione di marchi e in novembre addirittura a quattro miliardi di marchi. Nel mese di dicembre viene finalmente introdotta una nuova valuta fiduciaria – il “Rentenmark” o “marco di rendita” – che aiuta la rivalutazione del denaro e consente la ripresa dei pagamenti del debito di guerra e, quindi, la restituzione della Ruhr all’amministrazione tedesca.
Solo un mese prima, l’8 novembre, nella “Bürgerbräukeller” a Monaco, il generale Erich Luddendorff, affiancato da un esagitato comiziante di un piccolo partito di estrema destra, di nome Adolf Hitler, tenta un nuovo colpo di Stato – il “Putsch della birreria” – che viene rapidamente domato, dopo uno scontro a fuoco, con l’arresto dei capi della ribellione.
Prende così avvio una fase di relativa stabilità della Repubblica – che ormai molti chiamano “di Weimar” – e così, nel 1925, l’economia tedesca pare aver oltrepassato le fasi più difficili e la ripresa offre segnali di nuova speranza. Il governo firma gli “Accordi di Locarno”, accettando la perdita della Lorena e dell’Alsazia e la smilitarizzazione della Renania, ma ottenendo di essere riconosciuto come interlocutore internazionale e non più nemico sconfitto e vinto. Non è un risultato di poco conto, tanto che, l’anno seguente, la Germania viene ammessa alla Società delle Nazioni e, nel 1929, sottoscrive il “Patto Briand – Kellog”, con il quale i contraenti – oltre alla Germania, gli U.S.A., il Regno Unito, la Francia, il Giappone, l’U.R.S.S. e il Regno d’Italia – si impegnano a rinunciare alla guerra quale strumento di soluzione dei contrasti internazionali.
In questo clima, Weimar diventa sinonimo di espressione artistica, di libertà politica e di creatività innovativa. È la stagione del “rinascimento” tedesco, che regala all’umanità le caricature politiche di Otto Dix e di Georg Grosz; il movimento artistico della “Neue Sachlichkeit” (“nuova oggettività”); la cinematografia visionaria di Fritz Lang con opere come “Metropolis”; l’architettura del “Bauhaus”; il teatro politico di Erwin Piscator e quello epico di Bertold Brecht; la musica atonale di Alban Berg, Arnold Schönberg, Anton Weber, accanto allo sperimentalismo di Kurt Weill e Paul Hindemith. Sono gli anni degli sferzanti aforismi di Karl Krauss, della bellezza algida e antinazista di Marlène Dietrich e degli studi sulla relatività di Albert Einstein. Molti di questi intellettuali e artisti sono ebrei. Essi costituiscono le componenti di uno straordinario motore di sviluppo intellettuale ed economico, pur essendo solo 600 mila persone e rappresentando quindi l’1% dell’intera popolazione della Repubblica. Medici, avvocati e banchieri, sono decisamente integrati nel sistema e assimilati dentro la società germanica, avendo in contraltare gli “Ostjuden”, gli ebrei dell’est, qui giunti di recente, soprattutto dalla Russia, scossa da ripetuti pogrom prima e dalla “rivoluzione d’Ottobre” poi. Occupano gli scalini inferiori della piramide sociale e sono, in larga parte, operai e piccoli artigiani. Saranno proprio questi ultimi le prime vittime della persecuzione nazista che inizia a prendere corpo nelle farneticazioni del “caporale boemo”, rinchiuso nel carcere di Landshut, dopo il tentato golpe del 1923, dove scrive il “Mein Kampf”, “summa” dell’antisemitismo più brutale e razzista. Weimar è comunque, per il momento, un “luogo sicuro” e accogliente per gli ebrei, al punto da meritarsi quell’appellativo di “repubblica ebraica” che gruppi e gruppuscoli antisemiti, sorti un po’ ovunque con l’arrivo in massa degli ebrei orientali, appioppano alle Istituzioni statali e alle loro politiche. È l’inizio di un crescendo di accuse di tradimento della patria tedesca in guerra e che porta all’omicidio del ministro degli Esteri, Walter von Rathenau (1867-1922), ebreo e “colpevole” di aver firmato il trattato di pace di Versailles. Sono i prodromi di ciò che avverrà qualche anno dopo. Qualcuno ha detto che: “Weimar non si risolve nel suo inizio e nella sua fine”, perché è lo specchio del suo tempo e delle incertezze e frenesie che segnano i decenni fra le due guerre in tutta Europa. Questa “piccola città in Germania”, placida e tranquilla allora come oggi, è senza dubbio culla del modernismo culturale, ma è anche simbolo di un’epoca inquieta ed estroversa; affascinante e vitale e capace d’essere cantiere della cultura novecentesca e, al contempo, custodia ultima dei valori borghesi e dell’identità tedesca.
Di quell’epoca, il saggista Gottfried Benn, ancora nel 1955, scrive: “Gli anni più splendidi della Germania e di Berlino, sono gli anni di Weimar, così ricchi di talento e di arte. Anni che non torneranno più. Mai più!”Seduto in un “Cafè” sulla Marktplatz, osservo questa città, gemellata con Siena e già capitale europea della Cultura nel 1999, dove furono ospitati Schopenhauer e Liszt. Nel tavolino accanto al nostro, un’elegante e distinta signora anziana, che ha attraversato il “secolo breve”, ci sorride, mentre sorseggia il suo caffè. In quel sorriso pacato e gentile, rivedo la parte migliore della storia tedesca recente. Una storia che abita ancora a Weimar, ma che non ha saputo affrontarne le contraddizioni, cadendo così in un abisso di orrore e di odio, dal quale l’Europa sembra ancora incapace di riemergere.
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