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    Ponti di dialogo

    Maschi, celibi, eterosessuali

    redazioneBy redazione16 Maggio 2022Aggiornato:18 Maggio 2022Nessun commento6 Minuti di lettura
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    Sinodo. La Chiesa cattolica romana, nelle sue articolazioni diocesane, in questi mesi elabora i temi del sinodo, di quelle Assise della cristianità che dovrebbero portare a “camminare insieme” (questo vuol dire Sinodo) e a superare la burocrazia ecclesiastica che divide clero e fedeli.

    Naturalmente all’interno della Chiesa cattolica il clericalismo è duro a morire, ma intanto muoiono i preti e i laici sono chiamati a sostituirli, almeno in talune mansioni. C’è poi chi crede (spera) che il sinodo avviato nell’ottobre dello scorso anno, possa portare davvero un cambiamento radicale all’interno della Chiesa di Roma. Tra questi un piccolo gruppo di ottuagenari che ha vissuto sulla propria pelle le fatiche, le contraddizioni, i tentativi di radicare nella società la Chiesa uscita dal concilio Vaticano II (1962-1965). Ecco la loro testimonianza inviata a iltrentinonuovo.it

    Siamo un gruppo di vecchi, ottantenni. Da più di vent’anni, senza saperlo, i nostri sono stati incontri sinodali, di riflessione sulla Chiesa e sulla società. Il gruppo è stato fondato, al ritorno dalla loro missione in Brasile, da due preti, Michele e Giuseppe, che oggi ricordiamo con nostalgia e riconoscenza. Hanno riunito i loro compagni, ordinati in duomo, a Trento, nel 1967. Ma anche quelli che hanno poi lasciato il sacerdozio e si sono sposati, e quelli che, sulla soglia dell’ordinazione, dopo un’esperienza di lavoro nel mondo, in seminario non sono rientrati. O non sono stati riammessi perché la loro visione del sacerdozio e della Chiesa, fatta intravvedere dal Concilio, non era ancora accettata dal mondo clericale di allora. In maggioranza siamo stati insegnanti e medici. Attorno al tavolo, gioiosi e pensosi, diversi, ogni anno ci siamo raccontati le nostre esperienze di vita. Adesso è Marco a tenere le fila, e non ci nascondiamo che qualcuno, invitato, da sempre rifiuta. 

    Nel 1954, in prima media, al seminario minore, eravamo in 120. Allora, in Trentino, ogni bambino era battezzato alla nascita, ogni coppia si sposava in chiesa, tutti erano sepolti con funerale religioso. Era l’epoca lunga della “cristianità”, quando società e Chiesa, in vita e in morte, erano una cosa sola, nella politica, nella cultura, nell’etica. Il papa, Pio XII, e il vescovo, Carlo De Ferrari, erano figure sacre. La modernità, con le sue libertà, premeva alle porte ma, condannata in modo intransigente, pareva una sfida vinta. Nel 1959, in prima liceo eravamo ancora in 40, e in un rito festoso fummo rivestiti da una lunga tonaca nera, per difenderci dai pericoli del mondo. Il prete veniva istruito ed educato, “non al servizio, ma al comando della comunità, funzionario del culto, burocrate dell’organizzazione ecclesiastica, unico detentore del sacro e della verità”. In politica la Democrazia cristiana godeva di un consenso ideologico sacrale. Nella scienza, il professore di Antico Testamento “faceva lezioni in latino e riteneva sostenibile il racconto biblico della creazione in sei giorni”. Nell’etica il rapporto sessuale era permesso in funzione della procreazione, e come rimedio della concupiscenza. Questa storia Giacinto e Corrado l’hanno raccontata non in un convegno diocesano, ma laico, nel 2015, organizzato dal Museo storico, “A 50 anni dal Concilio Vaticano II (1962-1965)”.

    Fu quel Concilio a segnare la svolta. La Chiesa, non più divisa in docente e discente secondo il paradigma del Concilio di Trento, ma unita in “popolo di Dio”, fu chiamata a entrare in dialogo con la società secolarizzata. Questa, sempre più culturalmente e religiosamente plurale, non è più considerata un pericolo, ma il contesto in cui la fede è testimoniata come lievito e sale. Nella liturgia proprio oggi Bruno ha ricordato le messe di d. Dante Clauser, nella parrocchia di S. Pietro, in cui il popolo, assemblea celebrante, partecipava attivamente nell’esprimere in libertà “le preghiere dei fedeli”. Il punto di riferimento conciliare fu per parecchi di noi d. Bruno Vielmetti. “Vita Trentina”, diretta da d. Vittorio Cristelli, aprì un “dialogo aperto” con la società anche negli anni caldi del ’68. Seguimmo con attenzione le riviste l’Invito e il Margine. Ma nella ricezione del Concilio le resistenze, in alto e in basso, furono forti. I papati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI furono una frenata: la nostalgia della società cristiana si espresse in più modi. Già Paolo VI, un papa colto e tormentato, aveva riservato a sé il tema della sessualità e della famiglia, sottraendo al dibattito conciliare il celibato ecclesiastico e il controllo delle nascite. L’esito fu l’Humanae vitae, l’enciclica più contestata dallo stesso popolo di Dio. Il nostro contributo di oggi è titolato, non a caso, sulla figura del prete, che per il Codice di diritto canonico rimane ancora “maschio, celibe, eterosessuale”.  

    L’arrivo dall’America latina di papa Francesco ha riacceso le speranze: “più che occupare spazi, il nostro impegno è avviare processi nel tempo”.  Così possiamo interpretare le due encicliche “Laudato si’” e “Fratelli tutti”, ma anche il suo “Chi sono io per giudicare?” A Luigino, pessimista, nel nostro ultimo incontro a Verla di Giovo, Giuseppe rispose aggrappandosi al papa per la riuscita del Sinodo. Oggi, dopo la merenda nel cortile di questa canonica-cantina ne sperimentiamo le difficoltà. Anche fra noi le sensibilità sono diverse: non tutti sottoscriveremo questo contributo che invieremo alle due diocesi, e poi diffonderemo con mezzi artigianali. 

    Ma perché oggi ci incontriamo qui, ad Appiano, in provincia di Bolzano? Per ricordarci che la Diocesi di Trento, dai tempi del Principato vescovile comprendeva anche il territorio tedesco di Bolzano e della Valle Venosta, e lo difese con le unghie e con i denti anche nei passaggi più controversi, dell’annessione del Sudtirolo all’Italia (1919), delle opzioni durante il fascismo (1936), dell’8 settembre (1943) e dello Statuto regionale di autonomia (1948). L’incomprensione della questione altoatesina fu la politica di italianizzazione forzata che durò fino al 1964, quando in clima conciliare i confini diocesani corrisposero finalmente a quelli politici. Nella lunga epoca di cristianità i cristiani non dettero certo un esempio di pacifica convivenza fra etnie diverse. Oggi le due diocesi vivono in un clima di collaborazione, ci assicura Ivo Muser, vescovo di Bolzano.

    La sorpresa di oggi (2 maggio 2022) è, infatti, che a salutarci sono arrivati, invitati da Bruno Carli, anche i vescovi delle due diocesi di Bolzano-Bressanone e di Trento. Non chiediamo certo a loro di condividere tutte le nostre analisi, ma la loro presenza è un segno di attenzione di cui li ringraziamo. È la consapevolezza che il clericalismo è il peccato della Chiesa da superare. Con Lauro Tisi, vescovo di Trento, parliamo della risposta generosa dei trentini nell’accoglienza dei profughi dall’Ucraina in guerra. Il vescovo ci assicura che sono state messe a disposizione le canoniche che la secolarizzazione ha reso deserte. Ma riconosciamo anche la difficoltà, “prima gli italiani, prima i trentini”, nell’accogliere e integrare gli immigrati che arrivano dal mondo, e nella pratica dell’ecumenismo e del dialogo fra le religioni. Ci salutiamo con un arrivederci: “Siate sempre pronti a dare ragione della speranza che è in voi” (1 Pietro 3,15).

    Il “Gruppo sinodale 1967”, Palazzo Thun, Appiano-Eppan (Bz): Giacinto Bazzoli; Silvano Bert; Bruno Carli; Luigino Endrighi; Gianfranco Forza; Domenico Fossen; Corrado Leoni; Marco Morelli

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