Il Trentino senza “Trentino”. L’ultimo numero del giornale che fino al 2002 si chiamava “Alto Adige – edizione di Trento”, è uscito dalla rotativa sabato 16 gennaio 2021. “Addio cari lettori, domani non saremo più in edicola” strillava il titolo a piena pagina, sotto la testata che menava vanto di essere stata fondata nel 1945 e, pertanto, di aver festeggiato i 75 anni di edizione. “Perdiamo un pezzo di democrazia” titolava il fondo del direttore Paolo Mantovan (1964). “Effetto della crisi e del Covid” annunciava ai lettori l’editore Michl Ebner (1952).
Scriveva Mantovan: “È un pezzo di storia che si perde, un pezzo di democrazia che viene a mancare, è la sparizione di una voce che dà fiato a tante voci, è la scomparsa di un luogo delle nostre anime che, raminghe, non troveranno porto”. E concludeva: “Perdere una voce è un grave rischio per tutti”.
Quel giorno di metà gennaio, quando il “Trentino” ha chiuso, l’oroscopo di pagina 6, alla voce “Capricorno” recitava beffardo: “Basta con spese inutili. Forma in netto calo”.
Novantacinque anni prima, il 2 novembre 1926, giorno dei morti, aveva cessato le pubblicazioni “Il Nuovo Trentino”, quotidiano cattolico diretto da Alcide Degasperi (1881-1954). Era l’ultima delle tre pubblicazioni che il giornalista e uomo politico aveva fondato o diretto: “La Voce Cattolica” (1905-1906), “il Trentino” (1906-1915), “Il nuovo Trentino” (1918-1926).
Il giornale era arrivato nelle edicole tre settimane dopo la fine della Grande guerra, un giorno di sabato, il 23 novembre 1918. In prima pagina un “Avviso” firmato da Enrico Conci, Alcide Degasperi, Rodolfo Grandi, Guido de Gentili e Emanuele Caneppele. Gerente responsabile era Francesco Larcher, la tipografia era in via Alfieri, 1 a Trento. Quattro pagine, inizialmente in formato tabloid, il “Nuovo Trentino” usciva sei giorni la settimana, esclusa la domenica. Fin dagli esordi la redazione sperimentò la censura.
Il territorio era ancora sotto occupazione militare italiana (l’annessione sarebbe avvenuta in autunno del 1919). Il 5 aprile 1919 fu censurato per un titolo riferito al cambio al 40% della corona austriaca in lire italiane: “Economicamente un errore, politicamente uno sproposito madornale”. La pagina uscì con alcuni spazi bianchi, al posto delle righe tagliate dalla censura. Una nota di protesta fu pubblicata qualche giorno dopo: “La censura ci sopprime ogni parola in difesa degli interessi del paese. La nostra redenzione politica non significa passare da un dominio a un altro dominio”. Il giornale concorrente, “La Libertà”,in quei giorni soffiava sul fuoco definendo il quotidiano cattolico un “foglio sabotatore della nostra redenzione […] che diffonde malcontento, sfiducia, malanimo”. Per contro, “Il nuovo Trentino” aveva difeso “il sacro dovere dei pubblicisti [di] dir bianco al bianco e nero al nero”.
I redattori erano quattro: Alcide Degasperi, Vincenzo Molino, Gino Segata e Giuseppe Bracchetti al quale era affidata la cronaca del giornale. L’orario di lavoro: dalle 16 alle 19 e dalle 21 alle 2 della notte.
Poche righe per la “nera”, ampio risalto alla cronaca giudiziaria. Così come finiva in prima pagina il resoconto su iniziative del Partito Popolare. Lo sport avrebbe avuto uno spazio definito a partire dal 1922. L’anno precedente furono dedicate numerose pagine al sesto centenario dalla morte di Dante (14 settembre 1321) e ai 25 anni del monumento inaugurato domenica 11 ottobre 1896 nell’omonima piazza, di fronte alla stazione ferroviaria.
L’indomani della Grande guerra, anche per onorare l’eredità ideale del “martire” Cesare Battisti, la stampa di impronta socialista aveva conosciuto una breve primavera. Dalle tipografie di Trento e Rovereto uscivano con cadenza periodica “L’internazionale”, “Il Lavoro”, “La voce del popolo”, “Il Popolo”; “Il Domani di Vallagarina”.
Gianni Faustini ha scritto che, tra il 1919 e il 1926, si era avuto un “pluralismo eccezionale di organi di informazione” con una diffusione notevole di copie. “Il quotidiano cattolico [Il nuovo Trentino] nel 1921 vende oltre 7mila copie; “La Libertà”, nel 1920 è sulle 3mila copie; inferiore la tiratura del quotidiano fascista “Il Brennero”, ma sulla piazza era arrivato, nel 1923, anche “Il Gazzettino” di Venezia che sarà il giornale più letto durante il periodo fascista”. (“Giornali e giornalisti nel Trentino dal Settecento al 1948”, 1992).
Già incombeva la censura con le leggi fasciste e il tentativo di mettere un bavaglio alla stampa non di regime. Infatti, nel luglio del 1923, Alcide Degasperi sottolineava la “gravità del decreto in materia di stampa” che avrebbe potuto “far scomparire tutta la stampa che si permettesse una più o meno ampia libertà di critica o, semplicemente, di giudizio”.
La mannaia non tardò a farsi sentire, con i primi sequestri legati a un articolo nel quale si dava conto delle lotte intestine tra i fascisti trentini. “Il sequestro – si scriveva – è ora all’arbitrio dei prefetti. […] Per quanto prudenti, il pericolo è cotidiano e le condizioni finanziarie non ci concedono di continuare colle seconde edizioni”.
Vincenzo Molino, redattore capo e gerente responsabile del giornale, il 7 gennaio 1925 rilevava che “col vento che spira i commenti non sono agevoli. I giornali di opposizione si limitano a fare della cronaca”.
Il “Nuovo Trentino” era già stato sottoposto auna ventina di sequestri, altre requisizioni di copie le avevano subite “La Libertà”. “L’organo del partito liberale democratico trentino” avrebbe cessato le pubblicazioni il 31 dicembre 1925.
A uscire con vistosi spazi vuoti, segno della censura, era anche “Il popolo Trentino”, settimanale “delle organizzazioni sindacali bianche” il cui ultimo numero porterà la data del 28 ottobre 1926.
La testata sarebbe risorta con la caduta del fascismo, l’indomani della seconda guerra mondiale. Dapprima come settimanale (12 agosto 1945-27 giugno 1946) “organo del partito della Democrazia Cristiana”. Dal 16 giugno 1946 come quotidiano, con la firma di Flaminio Piccoli quale direttore responsabile. Giovedì 1° marzo 1951 cambierà la testata diventando “L’Adige”.
La redazione e la tipografia del “Nuovo Trentino” furono devastate dai fascisti la notte tra il primo e il 2 novembre del 1926. Sfasciato il mobilio della redazione, allontanato il direttore, il “Nuovo Trentino” sospese le pubblicazioni.
“Non ricordo il giorno – dichiarò (1980) Umberto Polo a Gianni Faustini (1935-2020) – era sull’imbrunire. I fascisti invasero la tipografia e il giornale devastando mobili e attrezzature, manganellando chi resisteva. Degasperi salì su una vettura, tentò di rincuorarci e poco dopo partì per Borgo”.
In quelle stesse ore, nuclei di camicie nere avevano occupato e deturpatole sedi del SAIT, della Lega dei contadini e del mondo cattolico trentino.
Qualche mese prima, il 28 gennaio 1926, Alcide Degasperi aveva rassegnato le dimissioni da direttore: “Le presenti circostanze – scriveva – mi determinano a lasciare provvisoriamente il giornale. Il “nuovo Trentino” continuerà nello spirito e nella tradizione di giornale cattolico quotidiano, limitandosi, nella parte che riguarda la politica, alla cronaca”. “Lascio il giornale con incredibile strazio. […] È giocoforza ascoltare la voce imperiosa del tempo. Tempo verrà”.
Nella direzione del giornale, a Degasperi subentrò don Giulio Delugan (1891-1974).
L’indomani dell’assalto squadrista alla redazione, in una lettera all’amico Giovanni Ciccolini (1876-1949), Alcide Degasperi scriveva: “Si è rovesciato su di noi come un nubifragio, chi più, chi meno, ne siamo tutti usciti malconci”.
“Un ciclone si è abbattuto sopra tutte le istituzioni aderenti all’Azione cattolica – dichiarò il vescovo Endrici – Noi assistemmo addolorati a scene mai viste nella nostra regione. A manipoli di dimostranti tutto era lecito, sotto gli occhi della pubblica sicurezza”.
Un mese e mezzo più tardi, il 23 dicembre 1926, sulla piazza di Trento e nelle valli si presentava un nuovo foglio, un settimanale, con la testata “Vita Trentina”. Voluto dagli uomini di “Azione Cattolica”, con la benedizione del vescovo Celestino Endrici (1866, 1904-1940), dal 1929 fu affidato alla direzione di don Giulio Delugan. Il quale, sia pure fra sequestri e contrasti col fascismo, ne tenne le redini fino al 1968.
Dopo la “marcia su Roma” del 28 ottobre del 1922, Benito Mussolini (1883-1945) era stato incaricato dal re, Vittorio Emanuele III (1869-1947), di formare un nuovo governo. Fu come dare a Dracula la presidenza dei donatori di sangue. Da navigato giornalista, Mussoliniconosceva la funzione della stampa. Nel 1909, a Trento, aveva scritto per “il Popolo”, il giornale di Cesare Battisti (1875-1916). Qualche anno più tardi, per fondare il “Popolo d’Italia”, a Milano, nel 1914, aveva chiesto e ottenuto i denari anche dalla sua prima moglie, la trentina da Sopramonte Ida Dalser (1880-1937).
Benito Mussolini mise il bavaglio alla libera informazione e potenziò la stampa di regime. In tal modo, domenica 13 gennaio 1924 i trentini si trovarono tra le mani “Il Brennero”. Il quotidiano fascista avrebbe dato voce al regime sino a mercoledì 15 settembre 1943.L’8 settembre aveva segnato la resa dell’Italia agli anglo-americani, l’occupazione nazista del nord Italia, e l’insediamento a Salò, sul lago di Garda, della Repubblica Sociale Italiana.
Oltre alle leggi che il fascismo promulgò per intimidire e zittire la libera stampa si sarebbero aggiunte nel Ventennio assalti e devastazioni.
L’assalto al giornale cattolico, nella notte di Ognissanti del 1926, era stato preceduto (febbraio 1925) da intimidazioni violente nei confronti del giornale “La Libertà”, il cui direttore era stato schiaffeggiato almeno in un paio di occasioni. “Il 3 novembre 1926 una squadraccia fascista occupa la casa editrice Vogelweider di Bolzano. Il 5 novembre 1926 vengono sciolti tutti i partiti di opposizione. Cessano gli organi di stampa non fascistizzati”.
I periodici di impronta socialista erano stati imbavagliati e costretti alla chiusura già nel 1924, dopo il delitto Matteotti, “l’anno della nuova legislazione repressiva sulla stampa, della proclamazione definitiva della dittatura”.
Il 30 maggio 1924, alla Camera dei Deputati, a Roma, il parlamentare socialista, la cui famiglia era originaria della val di Pejo, aveva denunciato l’uso sistematico della violenza da parte dei fascisti per vincere le elezioni. In Italia si era votato il 6 aprile 1924 in un clima “di totale violenza” che aveva portato alle “Liste Nazionali” del partito fascista il 65% dei voti e il 70% dei seggi. La denuncia di brogli e intimidazioni da parte di Giacomo Matteotti (1885-1924) alla Camera dei deputati, aveva firmato la sua condanna a morte. Rapito a Roma da cinque fascisti, il 10 giugno 1924, mentre si recava a Montecitorio, fu trovato cadavere il 16 agosto in un bosco a 25 chilometri dalla capitale. La vettura usata per il rapimento, una Lancia Lambda, era stata prestata agli assassini del regime da Filippo Filippelli, un giornalista, il direttore del “Corriere Italiano”.
A Comasine, in val di Pejo, una lapide, murata dalla Federazione trentina del PSDI il 10 giugno 1954, indica “la casa avita di Giacomo Matteotti [il quale] propugnò i diritti dei lavoratori affrontando consapevole il martirio. Oggi nel mondo intero simbolo di giustizia sociale e di libertà”.
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