Con le piogge di novembre sono arrivati il “novello” e la novella. La notizia cioè che casa Ferrari ha portato in degustazione un altro Trento-doc da podio. E fin qui, felicitazioni e nuove battaglie per nuove bottiglie. Ciò che lascia un retrogusto amaro al nostro architetto-vignaiolo sono le descrizioni che oltrepassano i superlativi. Il vocabolario della lingua italiana va già stretto a certi cantori della bottiglia (soprattutto quando ne hanno trangugiata più d’una) ma qui si sono superati i confini del gusto e del palato. Oddio, qualche anno fa a una degustazione plurima di vin santo d’annata, in quel delle Sarche, abbiamo sentito declamare “l’odore del cuoio appena conciato”, “le negritelle”, “la viola mammola”, persino il retrogusto del papavero. Scomodando Karl Marx si potrebbe parlare di vin santo come l’oppio dei buongustai. Noi, che in fondo, siamo contadini prestati alla penna, tanto per non sfigurare con coloro che hanno superato la terza media, riandiam con la memoria al tempo in cui “per le vie del borgo/ del ribollir dei tini/ va l’aspro odor dei vini/ l’anime a rallegrar”. Nella nebbia delle parole (altrui) raggiungiamo a tentoni la cantina per un brindisi con chi fa il vino. Decantato o no. Con o senza decanter. (af)
Confesso, qui, tutta la mia profonda ignoranza in materia di vini e, nel contempo, un’ammirazione smodata per chi, davanti ad una bottiglia di vino, si inchina quasi in adorazione ancor prima di aprirla e di gustarla. C’è chi ne conosce caratteristiche, storia, vita ed ogni particolare che la segna (la bottiglia): dal cantiniere che l’ha creata, il luogo e i contenitori dove hanno albergato prima i suoi mosti divenuti vino.
Dentro ogni bottiglia è rinchiusa la storia, è indicato il luogo di coltivazione della vite; sono segnate le tracce di eventuali matrimoni fra uve o vini, tempi e modi di lavorazione. Maturano in bottiglia molte caratteristiche che fanno assumere ai vini colore, trasparenza, corpo e sapori. Il solo a sentirli nominare, con sapienti o funamboliche descrizioni, mi fa inebriare. Mi entusiasmo e mi innamoro di quel sorso che, dalla descrizione, sembra un frullato di tutto ciò che in una enciclopedia degli aromi sono censiti alla voce: profumi possibili del buon vino.
Beati loro, io lo confesso, sento solo il fastidio dei vini che sanno di tappo, di feccia, di aceto o di… bottesón! Mi sento un po’, Arturo il clochard più noto e simpatico di Trento che non diceva mai di no per un bicchiere alla staffa.
Quando un vino è sano e bevibile, quasi sempre lo trovo piacevole e non riesco a distinguerli tutti con quelle caratteristiche che i sommelier, indistintamente, rilevano e descrivono con contagiosa e superba maestria.
In questi giorni la casa spumantistica per eccellenza di casa nostra, la Ferrari, regina del Trento-doc e principessa dei mercati mondiali delle bollicine di classe, ha presentato una nuova eccellenza dedicata al ricordo del suo antenato. Un vino che vale una rata mensile del reddito di cittadinanza. Dalla descrizione dei sapori e dei sentori contenuti deve essere certamente uno scrigno di tutto quanto fa roteare narici e palati. Naturalmente di coloro i quali hanno la fortuna, l’esperienza e il gusto di capirci qualcosa, di saper bere e di saper sputare; di annusare e far girare anto ben di dio in bocca per esercitare quel “tasting” che ne estragga anche il più impensabile dei sapori.
Più il prezzo sale e più i sentori, a detta dei guru del gargarismo enoico, sono eccelsi ed indigesti al tempo stesso per chi è fedele al bicchiere alla staffa. Quello che paghi prima, fai “una rèsta”, cioè bevi in un sol colpo e non ti concede il tempo di cercare e descriverne le caratteristiche. Insomma, quello è il vino della casa non della “maison” (che in francese vuol dire “casa” ma anche azienda vinicola e molto altro).
Vorrei proporvi a questo punto una nota delle caratteristiche dello spumante che rappresenta l’ammiraglia di casa Lunelli-Ferrari. Sappiate che lo faccio con estrema devozione ed ammirazione per chi è riuscito a percepire tutto ciò che il testo descrive. Debbo peraltro confessare che mai, neppure con un suggeritore esperto alle spalle, saprei comprendere, distinguere e decantare tutto ciò che taluni cercano e descrivono di un vino. Se mi si chiede un giudizio su un vino di tal valore (non s’offendano gli intenditori sopraffini e i giornalisti che passano per palati fini) dopo il primo sorso il mio verdetto può essere soltanto: “bon”! Secondo i suggerimenti di maison Ferrari, dovrei rilevare, nell’ordine: un’intensità dorata dal perlage fine, note tostate, saline e speziate; sentori di frutta gialla, agrumi canditi, spunti di zafferano, anice e mela cotogna. Si dovrebbero pure percepire lo zenzero, la curcuma con accenni finali resinosi e balsamici.
Un Trento-doc ampio, con ricchezze di aromi e persistenti equilibri precisi e intensi! Scusate l’ardire ma tutto questo mi ha fatto sentire di un altro mondo. Forse sono io che sono limitato, avendo passato Natale e Capodanno in una borgata dove le uve fermentano e fanno volare i loro profumi: invadono cortili e case, attirando moscerini ed assaggiatori. Non mi è mai capitato di sentire tutto questo in un bicchiere. Capisco pertanto come il valore e il prezzo della bottiglia sia correlato … e conseguente. Perché, se esiste veramente, ogni profumo citato merita la propria provvigione.