È cominciata, sottotraccia, la lunga campagna d’autunno. Dell’autunno prossimo venturo, quando si andrà al rinnovo del parlamentino dell’autonomia. Sostantivo “pesante” poiché delinea la posizione giuridica di un territorio che si governa con leggi proprie. Un’autonomia da molti creduta monolitica e scontata, al punto di averla consegnata, con libere elezioni, a chi con occhio strabico guarda alla poltrona ma attende indicazioni dai papete della padania. E il PAT (partito autonomista trentino) che dovrebbe avere la PAT (provincia autonoma di Trento) come stella polare più delle stelle alpine, che cosa fa? Pier Dal Ri delinea uno scenario, meditato zappando le terre ubertose della sua Corona (di mezzo).
Diciamolo pure, il Pat (partito autonomista trentino), sarà l’ago della bilancia alle prossime elezioni. È il commento di molti osservatori e commentatori e, tutti, quasi unanimemente, sono convinti che il Pat sia la vera meretrice istituzionale. Sempre in vetrina nel quartiere a luci rosse della politica locale, in attesa di offerte e di proposte, che a seconda del peso, non potrà rifiutare. Disposti a tutto, sempre aperti a tutto: stelle alpine, genziane, negritelle o non-ti-scordar-di-mè, ogni fiore va bene per simboleggiare “quel mazzolino di fiori che vien dalla montagna” in sul calar delle elezioni.
Eppure, in pochi conoscono la storia di questo partito di lottatori per la libertà culturale, politica e di tradizione transfrontaliera, un po’ italiano e molto tedesco, culturalmente simile a tutte le cerniere che, con fatica e non sempre, in un “lampo” “cercano di mettere assieme mondi culturali, etnici, politici ed economici, spesso diversi e contrastanti, ma con il comune amore per il profumo di un territorio che sentono loro. Così come i curdi, i ladini, i palestinesi, i catalani, molto spesso massacrati perché di disturbo agli Stati sovrani, popoli nel mondo che non trovano la loro casa. C’è da dire che l’Alto Adige e, di riflesso, il Trentino, hanno avuto vita relativamente facile per realizzare i loro sogno e vivere in pace, con libertà e benessere a gran sazietà. Qualche pillola di tritolo, un po’ di più motti in testa e in bella vista, oltre a raduni e colorite adunate con slogan mirati, in tedesco espressivo e musicale, come il mai dimenticato “Loss von Trient”, il gioco fu facilitato. Con quello spirito di alpina pazienza si è attivata una macchina della diplomazia e del dialogo costruttivo che ogni angolo di mondo e popolo in lotta per l’autodeterminazione ci invidia.
Gruber e Degasperi, poi anche Magnago e Kessler, Andreotti e Durnwalder, hanno sempre mantenuto un tavolo bandito con una bottiglia di buon vino di S Michele ed una di Laimburg. Hanno battuto qualche punto alla morra e fatto sfoggio di una grande capacità di mediazione e di concretezza. Sì, merita ricordare che la terra, che ha dato origine ed il là ad un partito che porta nel simbolo le stelle alpine ha queste origini. E stride un po’, il solo pensare al fascino che questa formazione politica vincente aveva suscitato. All’interesse e all’ammirazione di quanti, in Italia, propugnavano il federalismo, la “Padania” libera e autonoma, il nordismo anti “terronismo” e venivano a scuola in val dei Mocheni, da noi, come scolaretti ad un master nei college inglesi, per capire ed imparare ciò che poi, è finito nel salvinismo meloniano. Ecco il Pat c’è ancora ma nessuno sa più che cosa sia e, come sempre, mezzo di qua e mezzo di la, con l’Ercolino sempre in piedi, la trottola istituzionale di Campodenno, mai fermo e domo, che pensa, progetta e sagoma scenari futuribili per un partito che aggreghi ormai tutti, recluti tutti, dia voce a chiunque abbia l’ambizione di essere la gamba della politica che mancava al dotto, saggio e lungimirante Magnago. In questi casi si dice: “l’è nada la Gaza”. Ugo Rossi si è messo in Azione; Dallapiccola e Demagri, con discreta presenza e signorilità vivono il loro imbarazzo istituzionale; il segretario pare segretato; Ossana, più che un uomo di ferro pare una lega ossidata. A Trento, il Pat vicino a Janeselli e suo fido supporter, sembra aver sposato la tesi di chi attende tempi migliori e si sta convincendo che, probabilmente, Pat, significa “Paesani a Trento”. Così sta aggregando chi, pur anagraficamente iscritto nei registri di città, ha il cuore ancorato nel paese d’origine e sogna di tornarci appena possibile, anche spesso, o magari solo per il riposo eterno.
Se la vita politica del Pat, a Trento, pare un po’ “stanchina” non è azzardato ipotizzare che con questa nuova tesi di paesanità urbana, ma sana e feconda, le prossime elezioni possano essere un successo, mettendo in lista più che persone pensanti, cognomi parlanti, come Cembrani, Nones, Fiamozzi e via discorrendo. Per ribadire così, se c’è ne fosse bisogno, che il Clesio si sentiva potente perché aveva avvolto in un fascio unificante tutte le valli. Gli avevano donato quel principato trentino che ora, dopo decenni di controllo da chi scendeva dalle valli del Noce, è retto da chi è salito controcorrente dal profondo Adige.