Rovereto – Se ne è andata alla soglia del secolo che avrebbe raggiunto fra cinquanta giorni. Fu tra le prime farmaciste al femminile del Trentino. Margherita Bolego Barbacovi, per tanti roveretani è stata “La farmacista”. Era nata ad Arco il 31 dicembre 1922. La mamma, Amalia, era la figlia del medico condotto di Dro, un noto intellettuale membro della Consulta di Vienna assieme a personaggi del calibro di De Gasperi e Battisti. Fabio, il padre, era il veterinario di Arco, sempre in sella alla motocicletta per rispondere alle chiamate urgenti. In una di queste occasioni, cercando di evitare i bambini che uscivano a frotte dall’oratorio davanti alla chiesa dell’Inviolata, andò a schiantarsi su uno dei grandi platani che fronteggiavano la costruzione, perdendo tragicamente la vita.
Il ritratto di questa donna straordinaria è contenuto nel libro “Donne in città”. La incontrò Milvia Argenti. “Che tipo di educazione pensava di aver ricevuto?” la dottoressa Barbacovi rispose: “Quella del tempo, molto rigida: tutte le mattine, con gli insegnanti, si andava a messa alle sette e un quarto prima della scuola; la sera, in casa, si recitava sempre il rosario con tutta la famiglia e poi di corsa a letto; si doveva andare sempre in chiesa, alle funzioni e a tutte le feste comandate. Il senso di colpa e del peccato, la paura dell’inferno, l’ossessione del catechismo, la vergogna per una sana sessualità, le prediche e i rimproveri hanno sicuramente lasciato un segno ma, invecchiando, sono riuscita a liberarmi progressivamente di quegli insegnamenti che considero un sovrappiù e, pur mantenendo la fede e andando a messa, non do ascolto più di tanto alle cosiddette gerarchie ecclesiastiche. Tutte le sere recito sempre le mie preghiere, forse, e perché no, per interesse, ma non più per me; ormai ho a cuore soprattutto la salute e la felicità di figli e nipoti, di chi mi è caro insomma. Anche a scuola erano severi, ma quegli insegnanti ci davano tutto ed erano molte volte loro stessi esempi viventi di moralità, onestà e rettitudine.”
Disse di considerare i valori più importanti nel fare il proprio dovere. Ma è soprattutto nell’epoca fascista che questa donna si distinse per coraggio, raccontò che portava ai partigiani della val di Non i piani di avanzata degli alleati trafugati da un rivano, utilizzando come mezzo di trasporto proprio un camioncino tedesco e tenendo le carte nascoste e legate nel fondoschiena.
E poi l’Università a Bologna. “Per colpa della guerra, però, ho potuto frequentare solo il primo anno e tre mesi del secondo, badando a non perdere neanche un esame: studiavo all’Archiginnasio perché era più caldo e mi trovavo proprio lì dentro quando lo bombardarono provocando un bel po’ di danni. Un uomo mi gridò di spalancare la bocca per assorbire meglio lo spostamento d’aria e dopo due giorni morì, poveretto. Fu un’esperienza terrificante. Poco dopo bombardarono anche l’Università, ormai non si poteva più restare. Tornai a casa e dovetti aspettare la fine della guerra preparando Chimica organica sui libri che avevo, ma da ottobre del 1945 a giugno del 1946, tornata a Bologna, detti tutti gli esami del secondo, del terzo e del quarto anno, laureandomi il 29 luglio. Studiavo fino alle tre di notte, di giorno riuscivo a frequentare le lezioni e al pomeriggio a fare tirocinio in farmacia; il mattino il gas era disponibile solo per mezz’ora, così anche all’ora di pranzo e di cena, il bagno si faceva con l’acqua fredda, ma mi ero imbarcata in quell’impresa con la voglia di farcela e… ce l’ho fatta.”
In quegli anni Margherita incontra anche l’amore: è uno studente di Taio e si chiama Claudio Barbacovi; da giovane, per non aiutare i tedeschi nella ricostruzione del ponte dei Vodi a nord di Trento, sull’Avisio – che gli alleati continuavano a bombardare –, aveva scelto di lavorare nella miniera di Mollaro per estrarre ittiolo.
Con quest’uomo magrissimo, timido e premuroso, divenuto ben presto ingegnere chimico, la giovane dottoressa decide di mettere su famiglia; lei come primo impiego lavora nella storica farmacia Bettinazzi di Arco, lui a Verona in una fabbrica di ossigeno, dove, durante il controllo di un dispositivo, un ritorno di fiamma e una forte esplosione gli causano diverse ferite e ustioni, e, dopo qualche anno, anche la tubercolosi, dovuta al deposito nei polmoni delle minuscole particelle inalate durante l’incidente. Sotto shock, il giovane ingegnere decide di affiancare la moglie in farmacia, occupandosi prevalentemente degli aspetti amministrativi, e mettendo comunque a disposizione le ottime competenze chimiche acquisite con gli studi.
Nascono tre figli: Daniela, Giorgio e Beatrice.
E sull’oggi disse: “Vedo un mondo peggiorato in tutti i suoi aspetti, un mondo dove educare è faticoso, dove l’ambiente è considerato una pattumiera, dove la globalizzazione prende in giro i lavoratori, li sfrutta e li lascia precari e in braghe di tela, un mondo disonesto, che toglie la speranza ai giovani, un mondo dove la parola data non ha più valore e dove tanti cercano facili scorciatoie e vogliono tutto e subito. Perché sono le apparenze che contano, e la persona vale solo se consuma e solo per quello che possiede. I miei sogni nel cassetto sono diventati pochi ma buoni: che figli e nipoti trovino la loro strada e conservino serenità e salute. Lo spirito critico, l’intelligenza per capire, la volontà di rendersi conto personalmente, e al di là delle apparenze, di come stanno veramente le cose, l’impegno costante, la fatica, la voglia di farcela, non sono oggetti che si possono comprare, ognuno è direttamente responsabile della sua crescita umana e civile.”