La guerra del 2022 nel cuore dell’Europa richiama, per gli stessi luoghi e le medesime immagini di morte e di disperazione, la Grande guerra che poco più di un secolo fa coinvolse 27 nazioni ed alla quale parteciparono anche 60 mila uomini del Welschtirol, il Tirolo italiano. I nostri nonni, i nostri compaesani. Leopoli, allora, era il capoluogo della Galizia, la regione dell’impero austriaco ai confini con l’impero dello Zar di tutte le Russie. Oggi un territorio diviso fra la Polonia meridionale e l’Ucraina occidentale. Con Przemyśl e Cracovia, Leopoli era una delle città-fortezza dell’impero di Vienna. In quei luoghi, fra il 1914 e la primavera del 1915 si combatterono sanguinose battaglie. In quei cimiteri recuperati nei boschi di betulle, furono sepolti migliaia di soldati, anche trentini. Con loro anche Modesto dal Rì il nonno dell’arch. Pier dal Rì.
Leopoli, si proprio Leopoli, un nome di città che mi suona nelle orecchie da sempre, che ha segnato la mia vita e che, adesso, risento tornata città simbolo di guerra, di fuga, di cerniera di speranza e di morte. Sin da piccolo, mio padre, con la sensibilità e la paura di non impressionarmi, mi parlava di questa città ai confini dell’impero, dove non bastavano mai gli uomini al fronte per difendere un territorio del quale, pur se con sede nella Vienna imperiale, facevano parte anche il Trentino e Mezzocorona. Area marginale, un po’ bistrattata, del Welshtirolo.
Nel 1915 mio padre aveva solo due anni, non aveva salutato il babbo partito per il fronte, forse un bacetto furtivo che però non ricordava. Ma aveva capito poi che la sua vita era quella di un orfano a vita, costretto a fidarsi delle scarse cronache e di ricostruire il ricordo di un padre sulle contraddittorie ricomposizioni dei momenti salienti di una guerra terribile e disumana, come sono tutte le guerre. A quel tempo i conflitti erano anche senza notizie e immagini che ne formano testimonianza e storia. Io che ho vissuto in pace, che ho avuto le coccole di mio padre, in abbondanza, so che lui ha dato a me ciò che lui non aveva potuto avere. Ho sentito molti, ma filtrati, ricordi, spesso limati e resi digeribili per bimbi che non debbono misurarsi con l’orrore. È forse così che nasce la curiosità e il mistero per una città della antica Galizia come Leopoldi, un treno che parte da Mezzocorona e va fino ai confini dell’impero, progettato da un trentino del Primiero.
Ho visto e sentito spesso in casa incontri e riunioni di amici di mio padre che parlavano di caduti in guerra, di vedove, di orfani e reduci di un conflitto che lasciava macerie umane sparse in ogni luogo di quel vasto impero austroungarico, fino ai suoi confini trentini, dove si parlava poco tedesco ma un italiano paesano. Adesso che ho passato i settant’anni Leopoli parla ancora di guerra, di stazioni, di treni, di combattenti che arrivano, vengono armati e mandati fra sacchi di sabbia a difendere uno Stato da un attacco sconsiderato. Trovo ovviamente un collegamento diretto con la storia con un nonno che non ho conosciuto perché da quella città non è più tornato.
E mi impressionano quei sacchi neri con dentro corpi di soldati spesso poi chiamati e censiti quali “dispersi in guerra”. Una vittima inutile, un soldato ammalato e ultracinquantenne mandato al massacro, mio nonno. Un padre che non ha visto crescere un figlio, costretto poi a diventare adulto senza la guida di chi avrebbe avuto molte cose e insegnamenti da trasferire. Accompagnato dal pensiero continuo di come fosse terribile la guerra e come sia fonte di crudeltà. Io nipote, ma sopratutto figlio di un orfano di guerra, ho toccato con mano quanto le guerre segnano anche la vita delle generazioni che seguono. Guardo i miei nipoti, non parlo, e penso a mio padre che per una vita si è portato nella carne il tormento di una guerra che gli ha tolto la carezza che ogni bimbo aspetta da un genitore. Anche da chi, magari, non è certo predisposto e in buoni rapporti con la dolcezza affettiva.