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    Castel Valer: valore immenso

    Alberto FolgheraiterBy Alberto Folgheraiter23 Novembre 2021Aggiornato:24 Novembre 2021Nessun commento10 Minuti di lettura
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    Valer, quanto vale per chi lo vuole? Prezzo: 15 milioni e mezzo di euro. Valore: incalcolabile. La Provincia ha annunciato l’intenzione di acquistare il castello di Tassullo. Se l’operazione andrà in porto sarà una buona cosa: per la comunità nonesa, per il mondo dell’arte, per la cultura e per la storia di questo territorio puntellato di castelli. Costo preventivato: 15 milioni e mezzo di euro. Negli ultimi vent’anni, il conte Ulrich Spaur, aveva speso 17 milioni di euro (“senza alcun contributo dalla Provincia”), per restaurare il maniero che con la sua torre, alta 40 metri, domina l’intera val di Non. La sola cappella di San Valerio, con affreschi (1473) di Giovanni e Battista Baschenis de Averaria, e l’appartamento madruzziano decorato da Marcello Fogolino nel XVI secolo, non hanno prezzo. La quadreria con più di 150 dipinti è un museo a sé. Le 16 stufe a olle, tutte restaurate, suscitano stupore e rimandano calore. Segnalato fin dal 1211 come posto di guardia, il castello vanta più di 80 stanze, saloni, cucine e stalle. È stato abitato dalla famiglia Spaur per sei secoli, dal 1368 fino allo scorso febbraio quando, a 80 anni, è morto il conte Ulrich Spaur. Ha lasciato quattro figli che “vivono in giro per il mondo”, come ha raccontato a chi scrive tre anni fa.  

    “Vorrei vendere il castello” disse il conte al cronista che lo era andato a trovare a castel Valer, fra Nanno e Tassullo, in val di Non. Era una fresca mattinata di aprile del 2018. Il sole illuminava le Maddalene ancora innevate. Nei campi, attorno al castello, i meli in fiore tingevano la valle. “C’è già una persona che lo vorrebbe comprare ma ho tenuto tutto in sospeso. Sto trattando con l’Euregio, le province di Trento, Bolzano, Innsbruck, e sarebbe una sede ideale per loro. Non è questione di prezzo: prendere dieci o venti milioni di euro, non mi cambia la vita. I miei ragazzi [quattro figli] è meglio che si facciano la loro strada da soli”.

    Il conte Ulrich Spaur (1940-2021) alla presentazione di un volume su Castel Valer e i conti Spaur

    Conte Spaur, lei ha avuto una vita felice? “Io dico di sì. Prima di arrivare qui ho preso dei fiori in un negozio e la ragazza mi ha detto: ‘Lei mi sembra felice. Perché è felice’? Ho risposto: perché amo la vita però amo anche la morte. L’idea della morte non mi fa nessun spavento. Certo non vorrei soffrire per arrivarci, ma…”. 

    Vuol dire che lei crede nell’aldilà? “Si, assolutamente. Ci sono delle persone, dei medium, che mi hanno collegato con i miei antenati. Questa medium mi ha chiesto: ‘Con chi vorresti parlare’? Con mio nonno, ho risposto. Lei modifica la voce e parla come mio nonno. Poi, tornando con la sua voce di donna, mi domanda: ‘Ma lei ha un castello’? E non poteva saperlo perché non sapeva chi fossi. ‘Ma perché me lo chiede’? Ho replicato. E lei: ‘Perché suo nonno dice che le è molto grato per aver salvato il castello dalla rovina’. E poi mia nonna, alla quale faccio dire molte messe nella cappella di San Valerio, nel castello. Dice che desidera molte candele e molti fiori. Infine parlo con mio zio Pietro, ufficiale degli Alpini, caduto in Russia nel 1943. Mi sussurra: ‘Ti voglio molto bene, io sono già avanti nella luce e ti aspetto”.

    Conte Ulrich, si dice che nei castelli abbondino i fantasmi degli antenati. Le è mai capitato di sentire rumori strani, magari la notte? “Quando la mia seconda moglie è venuta qui, e vi è rimasta poco, abbiamo aperto un baule per guardare delle fotografie e nella stanza accanto è caduto uno specchio. Si vede che qui non era ben vista e infatti non è più venuta”.

    Quanto al conte Ulrich nessuno si stupisca se ammette di non aver più dormito nel letto della stanza grande dopo che un medium svizzero, ospite al castello, gli aveva rivelato che vi era morta avvelenata una giovane donna. Stupefatto, il conte Spaur aveva cercato e trovato traccia di quel delitto nell’archivio di famiglia. L’antenata si chiamava Verena Spaur, morì a 19 anni nel 1670.

    Fantasmi a parte, lei ha avuto una vita avventurosa anche nel mondo reale. “Sono nato a Milano, ma durante la guerra siamo dovuti scappare e siamo finiti sul Renon, dove abbiamo vissuto in povertà. Pensi che mia mamma, per comprare due uova e un pezzo di pane ha dovuto dare in cambio dei gioielli. Dopo le scuole elementari a Renon, mi hanno mandato assieme a mio fratello, due anni più grande, in un collegio di gesuiti vicino a Feldkirch, in Austria. Una cosa tremenda. Per fortuna mio fratello è quasi morto e allora mia mamma è venuta a prenderci e con un’ambulanza ci ha portati a Merano. Qui ho frequentato le medie e il liceo classico, con greco e latino e nessuna lingua straniera purtroppo. Dopodiché mio papà ha voluto mandarci a Bologna, me e mio fratello, per fare l’università di giurisprudenza. Ma io ho detto: “Papà, non voglio fare legge, voglio fare economia e commercio”. “No, tu fai legge”. Così a Bologna abbiamo fatto un anno di baldoria, avevo imparato a giocare a bridge ed ero diventato abbastanza un campione. Insomma ci siamo divertiti molto. Finito quell’anno a Bologna ho detto: “Adesso vado a spese a mie a fare quello che mi piace. Così sono approdato a Monaco di Baviera. Davo lezioni di bridge e frequentavo la facoltà di Economia e Commercio. Finita la tesi sono venuto in Italia, a Bologna e Milano, per sostenere gli esami perché non c’era allora l’equipollenza, il riconoscimento degli studi fatti in Germania. Ma in Italia non mi sono laureato perché una ditta americana mi ha offerto un lavoro straordinario a Monaco. Dove ho guadagnato un sacco di quattrini che ho speso per restaurare il castello in val di Non”.

    Castel Valer oggi e negli anni Trenta del XX secolo

    Che adesso lei vorrebbe vendere, anche se ha quattro figli. “Mi sono sposato una prima volta nel 1970, a trent’anni, con una friulana. Ma il matrimonio è andato subito in frantumi, dopo un giorno, e la Sacra Rota lo ha annullato. Poi mi sono sposato con una contessa Kuenburg di Caldaro e Carinzia dalla quale ho avuto quattro figli: Anna, che fa la cardiologa a Monaco; Marie, che disegna gioielli; Leo che studia in Giappone e Lucas che lavora a Monaco. I miei figli non sono mai stati qui a castel Valer; mia moglie non è più venuta. Sono sempre stato qui in solitudine. Quando mio padre è morto, a 92 anni, ho cominciato a fare i restauri, poi mia moglie ha chiesto il divorzio e adesso sono di nuovo solo”.

    In famiglia avete sempre e solo parlato in tedesco? “No, con mio padre parlavo il “nones”, soprattutto quando non volevo che qualcuno capisse ciò di cui discutevamo. Normalmente parlavamo il tedesco austriaco. La mamma era tedesca, una baronessa Welzer di Norimberga. È morta a Merano a 37 anni quando io ne avevo 14. Una donna bellissima che aveva conosciuto papà a 13 anni, a Berlino, e che aveva sposato nel 1938”.

    Una famiglia molto antica e blasonata. “Siamo stati infeudati qui nel 1346, ma prima eravamo a Sporminore (Castel Rovina), a Spormaggiore (castel Belfort). C’erano sette linee Spaur: una qui, l’altra là, una in Baviera, una in Tirolo, una in Carinzia. Oggi siamo una sola: c’è mio fratello con due maschi e io con due maschi”.

    La sua famiglia vanta anche vari prelati, nel corso dei secoli. “Abbiamo avuto sette vescovi. Il primo, a Vienna, nel 1472, Leo von Spaur (1440-1479). Era odiatissimo perché aveva un potere enorme, non solo religioso. Dopo ne abbiamo avuti cinque a Bressanone; a uno di questi Mozart ha dedicato una messa e qui al castello abbiamo un clavicembalo sul quale pare abbia suonato Mozart, a Rovereto, nel 1782. E per finire un principe vescovo di Trento (Giovanni Michele Spaur, 1638-1725)”.

    Le pesa essere chiamato conte o ne è compiaciuto? “Né l’uno, né l’altro. I nostri dipendenti, anche se siamo come una famiglia, mi chiamano “signor conte”. Il titolo è abolito, anche in Austria, e quindi non posso usarlo. Ma non ci tengo neanche, in verità. Sono fiero degli antenati che hanno dato vescovi e uno pure cardinale; poi mio nonno era ufficiale austriaco. Organizzò nel 1905 le manovre imperiali a Romeno. Mio zio, Pierino, caduto in Russia a 29 anni, era il mio parino. Il 15 gennaio 1943 scriveva: “Ormai siamo in ritirata, siamo già sul Don; ci sono 30 gradi sotto zero; non preoccupatevi, non fa più così freddo”. Cadde il 19 gennaio ma qui vennero a saperlo mesi dopo. Era ufficiale degli alpini della Tridentina, gli hanno dato la medaglia d’argento alla memoria”.

    Lei vuol vendere il suo castello. Attorno ci sono campi di mele… “La interrompo. Ho venduto parecchia terra per restaurare il castello. Ci ho messo 26 anni e se lei vede non c’è un filo elettrico fuori traccia; il castello è tutto riscaldato; ho smontato e rimesso a posto tutte le 16 stufe di Sfruz. Non ho ricevuto alcun contributo. Finiti i lavori di restauro, due anni fa [2016] ho aperto il castello, sia pure parzialmente, al pubblico. La decisione è stata accolta con grande favore. Adesso apriamo solo il sabato e la domenica. Per qualche gruppo speciale anche durante la settimana ma, da luglio, tutti i giorni, con guide specializzate. Bravissime”.

    Lei è arrivato a un’età che consiglia qualche bilancio. “No, non mi piace. Anche perché dovrei partire da lontano. Comunque, oggi un castello così non ha più motivo di essere, non ha più motivo di esistere. Io vivo qui da solo in 88 stanze. Vorrei scappare, quasi, anche se forse sto esagerando. Difatti, può darsi che me ne andrò. Lasciarlo ai figli? Le leggi italiane sono tali che devono dividerlo in quattro. Poi, chi sposeranno? Cosa penseranno le mogli o i mariti di questi ragazzi? Vorranno restare qui? Secondo me no. Anche se lo lasciassi, le prossime generazioni saranno in 16, poi 64, come fai? Per cui sto pensando a soluzioni drastiche perché non si ha più il diritto morale e neanche la possibilità economica. Io per fortuna ho lavorato tantissimo in vita mia e guadagnato molto, molto, molto. E ho speso tutto qua. Ho messo 17 milioni di euro qua dentro e oggi non li vale neanche. Campagna ce n’è poca perché ho dovuto vendere per finanziare tutte queste cose, per cui… “

    Perché ha fatto tutto questo, conte? “Lo sentivo come un dovere. Un po’ che mi piace avere le cose perfette, io non lo sono affatto, però. Lo dovevo al ricordo dei nonni e dei bisnonni che lo hanno salvato dalle guerre, che hanno fatto lavori di restauro importanti, perché qui era mensa ufficiali. Quando sono tornati dall’Austria, nel 1919, i miei nonni hanno trovato tutte le stufe spaccate, danni agli arredi e alle suppellettili. Per fortuna che avevano nascosto l’argenteria e i quadri anche di pittori famosi, per cui i danni tutto sommato erano contenuti. Allora hanno ripristinato i tetti del castello, che poi ho dovuto rifare perché erano stati realizzati male. Mi ripeto: ho fatto tutto questo come dovere e come piacere, anche se oggi, probabilmente, non affronterei questa impresa”.

    Suo fratello era d’accordo? “Tre settimane prima che mio padre morisse, nel 1992, mio fratello è venuto da me, nello Zillertal dove vivevo, per raccomandarmi: “Dì al papà che lasci il castello a te, io non lo voglio. Figurarsi se io andavo a dire questo a mio padre. Solo che mio fratello non ha mai voluto venir qui a lavorare la campagna. Adesso compio 78 anni e devo fare una scelta. O ai figli, o venderlo”.

    Era il 21 aprile del 2018. Il conte morirà tre anni dopo, a Monaco di Baviera, il 19 febbraio 2021. Castel Valer lo venderanno i figli. 

    © 2021 Il Trentino Nuovo

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    Giornalista e scrittore. Negli anni Settanta redattore al settimanale “Vita Trentina”, alla redazione di Trento de “Il Gazzettino”, direttore responsabile di “Radio Dolomiti”. Dal 1979 al 2010 cronista alla redazione di Trento della Rai, poi capostruttura dei programmi (2007-2010); corrispondente dalla regione (1975-1996) del settimanale “Famiglia Cristiana”. Dal 3 novembre 2022 collaboratore fisso del quotidiano "IlT" del Trentino-Alto Adige. Ha pubblicato 27 libri su storia, tradizioni ed etnografia del Trentino-Alto Adige. È socio di Studi Trentini di scienze Storiche. È socio e direttore responsabile di "Judicaria", la rivista dell'omonimo Centro studi di Tione; e direttore responsabile della rivista "Teatro per Idea" della Cofas, la Federazione del teatro amatoriale Trentino.

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