Prosegue il nostro “viaggio” attorno all’esperienza del limite, dentro “i nervi scoperti dell’esistenza”. Limite, fragilità, vulnerabilità. Sono numerose le opere, i saggi, gli articoli, le prese di posizione provenienti da ambiti profondamente diversi (filosofici, letterari, artistici, sociologici, teologici, scientifici…), riguardanti questi tre parole fondamentali. Vogliamo riservare a ciascuna un’indagine specifica.
Il limite – La parola “limite” è colorata, per la maggioranza delle persone, di una sfumatura negativa e risuona, spesso, come termine fastidioso, evocando ciò che ostacola, impedisce, frena l’espansione, si oppone alla dilatazione di sé, al pieno sviluppo delle possibilità umane, della crescita nei diversi ambiti dell’esistenza. Risponde a questa costatazione l’affermazione di Emmanuel Mounier nel suo “Trattato sul carattere”. Egli scrive: “L’insofferenza dei nostri limiti deriva in gran parte da ciò che noi li consideriamo troppo di frequente sotto il loro aspetto negativo. Il limite è, nello stesso tempo, il disegno la superficie sensibile e la bellezza stessa della personalità”. (E. Mounier, Trattato del carattere, Paoline, 1949, p. 463)
Per molte persone “limite” è una ferita, un ostacolo, una barriera, un confine, una passività, un’interruzione, una sconfitta, ma anche un’apertura, un risveglio da un delirio di potenza… un punto di avvio oppure la fine di tutto. Quando si arriva all’esperienza del limite, in genere si vuole alludere alla debolezza, al trovarsi in uno stato di impotenza, di fronte alla forza soverchiante della sofferenza, del male, della morte.
Ha scritto il filosofo, recentemente scomparso, Remo Bodei: “I limiti ci circondano e ci condizionano da ogni lato e sotto ogni aspetto, a iniziare dagli immodificabili dati della nostra nascita (tempo, luogo, famiglia, lingua, Stato), dall’involucro stesso della nostra pelle, dagli orizzonti sensibili, intellettuali, affettivi del nostro animo, per finire con il termine ultimo e la morte” (R. Bodei, Limite, Il Mulino, Bologna, 2016, p. 7).
E Karl Jaspers, il filosofo che ha dedicato gran parte della sua ricerca al tema del limite, nella sua opera “Filosofia”, presenta addirittura una lunga sequenza di esperienze del limite: “La perpetua e spietata lotta di ogni cosa vivente che ha luogo nella natura a dispetto di qualsiasi stato d’animo di chi riguarda; i terribili dolori fisici che bisogna sopportare in continuazione; essere privati della persona che più si amava; vedere afflitti e annientati gli uomini che più si amavano senza poter far nulla per loro; vivere con la propria coscienza il tramonto di una cultura; volere e non potere (disposizione, povertà, malattie); coloro che si ammalano nello spirito e se ne accorgono; la paura della morte; la disperazione che accompagna la colpa inevitabile; il fare esperienza nichilistica dell’assurdità del mero caso” (Ivi, p. 288). “Nella sua inesauribilità l’individuo è il limite”, commenta alla fine Karl Jaspers. Come dice ancora Emmanuel Mounier, rinnegare il limite non significa renderci prometeicamente più forti di lui, ma votarci all’inconsistenza. Senza il limite non c’è distanza, non c’è alterità, e, dunque, non c’è spazio per la relazione, per l’incontro con l’altro, per l’amore, per la comunione, ma c’è solo invito alla fusione, all’assorbimento uno nell’altro, alla voracità, dunque alla violenza. Senza limite non c’è forma, ma dispersione; non c’è ordine, ma caos.
Senza il limite non c’è convivenza, non c’è “polis”. La legge è oggettivamente un limite (spesso imperfetto e perfettibile), che dà e consente la vita associata. Si tratta di un limite scelto dalle donne e dagli uomini, di un limite concordato, che pone gli argini vitali che consentono alle persone di vivere accanto senza sopraffarsi. La “cultura” dell’illegalità si fa beffe dei limiti e li deride.
Nell’“umano” due sono in particolare i limiti più significativi: il corpo e la morte. Il corpo è un limite: è lo spazio inaggirabile, inevitabile; ovunque io vada lui è con me. Non sfuggo al mio corpo. Con Michel Foucault possiamo cogliere il corpo nella sua ambivalenza di, da un lato, spietata topia, luogo assoluto, qui e ora irrimediabile, luogo a cui non possiamo sfuggire, e, dall’altro, di nucleo di ogni utopia, la possibilità di ogni altrove, di ogni movimento e spostamento, punto zero del mondo, dove i percorsi e gli spazi si incrociano.
Scrive Foucault: “Il corpo non è da nessuna parte. È nel cuore del mondo, questo piccolo nocciolo utopico a partire dal quale io sogno, parlo, avanzo, immagino, percepisco le cose al loro posto e insieme le nego con il potere indefinito delle utopie che immagino”. (M. Foucault, Il corpo, luogo di utopia, Nottetempo, Roma, 2008, p. 16)
Il corpo è desiderio, vocazione all’incontro, appello a relazione: “È con queste braccia che posso abbracciare. Con questa bocca che posso baciare. L’esperienza della carezza, che percorre i limiti del corpo dell’altro, che ne asseconda le forme, è di per sé evocazione di infinito. Il corpo sa domarsi nel fare l’amore, luogo culminante dell’esperienza erotica, del piacere, e, insieme, della fecondità della vita. Il limite del corpo non è ostacolo, ma condizione dell’accoglienza che esso fa ad un altro corpo nel reciproco scambio dell’amore. Proprio nella finitezza dell’amore è possibile sperimentare l’infinitezza del nostro essere. Il corpo si dona perdendosi in un altro corpo per ritrovarsi, per riconoscersi perdendosi. E in questo il corpo è più che mai spirituale.
Il corpo, poi, non è solo spazio, ma anche tempo: è il libro del tempo, il libro su cui il tempo incide la sua scrittura. Il limite temporale è invito alla sapienza di cogliere nel frammento illimitato del presente l’occasione di vivere il tutto del senso, il tutto dell’amore, il tutto a cui una persona la consacrato il significato della sua vita. La limitatezza temporale, lungi dall’essere motivo di angoscia, è possibilità di gratitudine e stupore.
B) Il limite della morte, a sua volta, cui si è già fatto riferimento sopra, è, come scrive il poeta latino Orazio, “l’ultimo di tutte le cose”. Il limite che la morte è, ha questa importanza di fare della vita un quadro, dandole una cornice. Dando una forma, dona anche bellezza. La morte rende vivibile la vita dandole una fine. La letteratura ha mostrato l’inumanità di una vita senza fine.
Lo scrittore portoghese José Saramago ha mostrato la disperazione di non morire più (in Le intermittenze della morte) e Jorge Luis Borges, nel suo racconto L’immortale, mostra che gli immortali sono trogloditi, esseri senza parole e senza scrittura, che non sono stati stimolati e sollecitati dal dolore fecondo del limite a sviluppare una cultura e che, privati del senso della precarietà e della caducità, non percepiscono nemmeno la preziosità dell’essere umano. Si smarrisce, nell’umanità non limitata dalla morte, il senso dell’unicità di ogni persona, e quindi non nasce la relazione di gratuità, non c’è la gioia di ciò che è unico. Il vivente è tale solo a condizione di essere mortale: muore solo ciò che vive… Un fiore di plastica non appassisce mai!
Scrive Vladimir Jankélevitch: “Solo ciò che muore è vivente, o, come dice Jean Wahl, ciò che vive è ciò che può morire. […] Senza la morte la vita non meriterebbe di essere vissuta. Sia maledetta la vita senza la morte! È Epitteto (filosofo greco vissuto dal 50 al 135 dopo Cristo) che si esprime così: “Katàra esti tò me apothaneîn” (maledizione è il non-morire). Dobbiamo pertanto scegliere tra la pienezza della finitudine o l’eternità nell’inesistenza. La morte vitale è ciò che rende appassionata la vita mortale”. (in La mort, Flammarion, Paris, 1977, pp. 449-450).
In questo senso potremmo affermare che il limite è grazia.
2.- continua