Chi ha letto, anche di sfuggita, qualche pagina di storia o ha seguito, anche saltuariamente, qualche documentario sulla seconda guerra mondiale, associa “piazzale Loreto” a Milano con la macabra ostensione dei cadaveri di Benito Mussolini e di Claretta Petacci, appesi a testa in giù all’insegna di un distributore di benzina. Ma ci fu un’altra “piazzale Loreto” che gronda orrore e sdegno, accaduta otto mesi prima, nell’estate del 1944. Meno nota e per questo è indispensabile che sia conosciuta. Se ne occupa, nell’anniversario del 10 agosto, Renzo Fracalossi.
Il 10 agosto, durante la “notte di San Lorenzo”, cadono le stelle. Anche il 10 agosto del 1944 cadono le stelle. Quindici, per l’esattezza. Cadono, fucilate per rappresaglia, a piazzale Loreto a Milano, dai militi della “Legione autonoma Ettore Muti” su ordine del comandante della Gestapo, l’SS-Haupsturmführer Theodor Saevecke, responsabile del Servizio di Sicurezza (Sicherheit Dienst – SD) e dell’Aussenkommando Mailand.
Ma cosa scatena la reazione nazifascista quel 10 agosto di ottant’anni fa? Per comprendere, è forse utile rammentare anzitutto come l’occupazione nazista dell’Italia, avvenuta a seguito dell’armistizio dell’8 settembre 1943, si connota per una originalità che la rende forse unica nel panorama dell’oppressione tedesca in Europa.
Non si tratta propriamente di uno “Stato-fantoccio”, com’è invece l’effimera “repubblica di Vichy” nella Francia vinta e umiliata. Mentre infatti quella repubblica, che è solo nominale e dura circa due anni all’insegna del motto “Dio–Patria–Famiglia” tanto caro anche a certe narrazioni attuali, nasce dall’esigenza di preservare in qualche modo un brandello di sovranità francese nel mare dell’occupazione tedesca, sulle rive dal lago di Garda prende corpo una sorta di “protettorato” tedesco. Si tratta di un soggetto avente una vaga forma statale e dove quasi tutte le prerogative elementari di un normale Stato, pur esistendo, sono condannate all’insignificanza, nonostante alcuni margini almeno iniziali di autonomia che però rendono insufficiente la definizione appunto di “Stato-fantoccio”.
Ma anche un altro elemento differenzia la “repubblica di Salò” da altre esperienze di simili simulacri di Stato e cioè la politica di repressione, esercitata nei confronti degli avversari politici e della popolazione civile. Si tratta infatti di dover calibrare le azioni di polizia dentro un confronto continuo fra una pluralità di centri di potere, sia fascisti come nazisti, in una costante sovrapposizione di ruoli e compiti che, a sua volta, genera non poche crisi e contraddizioni e porta il neonato sistema statale quasi sull’orlo del collasso anzitempo. In un caos crescente, segnato anche da una caccia spietata agli ebrei, prendono sostanza le grandi azioni resistenziali, con gli scioperi massicci del marzo ‘44 nelle fabbriche del Settentrione e con l’attentato di via Rasella, a Roma (23 marzo 1944). Sono questi atti clamorosi che obbligano ad un ricompattamento e a una nuova organizzazione con i quali governare i più diversi conflitti di competenza fra la Wehrmacht e gli organi di polizia e di sicurezza tedeschi e italiani. Bisogna insomma imporre un ordine e una scala gerarchica e ciò avviene soprattutto attraverso un accordo fra il feldmaresciallo Keitel, per conto delle forze armate del Reich e l’SS-Reichsführer Himmler, che entra in vigore il 1° maggio 1944 e investe il tema della sicurezza nelle retrovie immediate e nei territori interni della repubblica di Salò, subordinando definitivamente l’apporto fascista alle necessità belliche germaniche.
Il primo risultato di quest’accordo punta a conseguire due obiettivi fondamentali: far capire alla popolazione civile il rischio che la stessa corre nel sostegno alle attività resistenziali e colpire i reparti e le bande partigiane ovunque sia possibile. Viene così stabilito che i comandi tedeschi, nelle singole realtà locali della penisola occupata, possono agire con forme di rappresaglia di fronte a ogni minima azione rivolta contro i soldati e le organizzazioni tedesche di ogni tipo operanti sul territorio italiano. Le famose “Ordinanze” del feldmaresciallo Albert Kesselring, comandante del fronte meridionale, riassumono perfettamente questi orientamenti, come risulta da quella pubblicata il 30 luglio 1944 sul “Resto del Carlino” e che dispone: 1) azioni energiche contro le bande armate e gli atti di sabotaggio; 2) una percentuale di ostaggi civili da passare per le armi nel caso di sabotaggi alle truppe germaniche, ai materiali bellici ed alle infrastrutture; 3) rappresaglie, ricomprendenti anche incendi di abitazioni e villaggi, nel caso di spari contro militari tedeschi e loro organizzazioni; 4) impiccagioni pubbliche di membri delle bande armate partigiane presi con le armi in mano; 5) responsabilità personale per gli abitanti di paesi e città ove si verifichino atti di sabotaggio. Infine, si stabilisce che la repressione antipartigiana viene condotta dai locali comandi del Servizio di Sicurezza della Gestapo e dalla Polizia tedesca, ai quali debbono fare riferimento tutti i reparti e le milizie italiane inquadrati nella Guardia Nazionale Repubblicana (G.N.R.) e nelle formazioni autonome ad essa collaterali, come le Brigate Nere e, appunto, la “Muti”.
Si tratta di una svolta fondamentale, perché riorganizza, secondo logiche funzionali, l’intero sistema repressivo, anche consentendo agli uomini della Wehrmacht di partecipare ad azioni di polizia fuori dagli immediati ambiti del fronte bellico. È così che si rendono possibili alcune stragi sugli Appennini nell’agosto del ‘44: da Sant’Anna di Stazzema a Padule di Fucecchio, mentre a Milano e Torino si dà avvio a grandi retate volte a reperire manodopera da inviare al lavoro coatto nel Reich.
È in tale quadro di contenimento dell’azione resistenziale complessiva che rientra anche la vicenda di piazzale Loreto. Quel grande slargo è un crocevia importante nella geografia urbana della Milano dell’epoca.
La mattina dell’8 agosto 1944 una bomba fa esplodere un automezzo della Wehrmacht che è parcheggiato davanti al civico numero 77 di viale Abruzzi, a pochissimi metri dall’Hotel Titanus, sede del comando logistico tedesco per la Lombardia. L’esplosione uccide sei passanti e ne ferisce altri dieci. Sono tutti italiani e nessun tedesco è coinvolto nell’attentato, tranne un ferito lieve. Quest’attentato dinamitardo pare rientrare in un più vasto piano di destabilizzazione e di terrore avviato dai Gruppi di Azione Partigiana (G.A.P.) milanesi e che mira alla distruzione del maggior numero possibile di automezzi della Wehrmacht; un piano che ha già causato molti danni in città.
Per i tedeschi il colmo è raggiunto e così si decide di avviare, anche su richiesta delle autorità fasciste, una rappresaglia capace di servire come monito alla Resistenza cittadina.
Sono le 4.30 del mattino nel carcere di San Vittore. Qui ci sono molti detenuti a disposizione della Gestapo. Non hanno particolari imputazioni a loro carico, ma sono solo dei “sospetti”. Quindici uomini – “comunisti e terroristi”, senza però alcuna particolare accusa – vengono svegliati e fatti scendere nel cortile. Li caricano su un camion, scortato da un sidecar della “Legione autonoma Ettore Muti”, che è il reparto repubblichino incaricato dal capitano Saevecke di eseguire la rappresaglia. Quando il camion giunge a piazzale Loreto, si ferma. I detenuti vengono fatti scendere e spinti verso una palizzata. Agli ordini di un ufficiale tedesco, i militi fascisti della “Muti” si dispongono a semicerchio e in quel momento i prigionieri hanno l’esatta percezione di ciò che sta accadendo. Urla. Disperazione. Terrore. Arriva rapido l’ordine: “Feuer!” (Fuoco) e i quindici “sospetti partigiani” vengono colpiti disordinatamente, mentre qualcuno tenta invano di fuggire. Uno, ferito a morte, riesce a trascinarsi in una casa e salire una rampa di scale, dove muore in un bagno di sangue. Piazzale Loreto è deserto a quell’ora del mattino. L’ufficiale nazista ordina ai fascisti di fare un cordone attorno ai cadaveri, per impedire a chiunque di avvicinarsi agli stessi e fa esporre su di essi un cartello, firmato dal “Comando militare tedesco”. I primi operai che si recano al lavoro all’alba transitano davanti a quel raccapricciante mucchio di morte. Alcune donne si sentono mancare alla vista di tanto orrore, mentre una sorda indignazione monta nella popolazione cittadina.
Il generale delle SS Willy Tensfeld, comandante della Polizia e dei Servizi di Sicurezza per l’Alta Italia occidentale, ha dato ordine di lasciare i cadaveri esposti, affinché servano di lezione alla Resistenza, nel caso di altri eventuali attentati. Le autorità fasciste protestano con il colonnello SS Walter Rauff per questa barbarie che, secondo loro, potrebbe scatenare effetti negativi, ma gli ordini sono ordini e i cadaveri, coperti di mosche nel caldo torrido del luglio milanese, rimangono a terra fino a tarda sera.
Il prefetto di Milano, Parini, redige una “Memoria riservata e urgente per il Duce”, nella quale descrive gli avvenimenti e lamenta il trattamento subito dai tedeschi e il loro totale disinteresse nei confronti dei fascisti e del potere repubblichino. Una segnalazione che non sortisce alcun effetto.
L’esposizione dei cadaveri non è contemplata mai nelle direttive tedesche sulla repressione della Resistenza, né in Italia, né altrove. Si tratta quindi di una scelta crudele e macabra, volta a testimoniare la potenza degli oppressori e a infierire sui morti, in un dispregio totale e senza senso.
Mussolini, venuto a conoscenza dei fatti, pare abbia esclamato: “Il sangue di piazzale Loreto lo pagheremo molto caro.” Una sorta di premonizione.
La reazione di Milano è composta, ma severa. Scioperi in qualche stabilimento e volantini del Comando generale delle Brigate Garibaldi che annunciano la fucilazione, in risposta all’eccidio, di quindici militi fascisti prigionieri dei partigiani, anche se non si è mai saputo quale seguito abbia avuto quest’ordine. Piazzale Loreto rimane comunque lo scenario dell’orrore.
Sono trascorsi più di otto mesi da quel massacro. Sono le 22.30 della sera del 28 aprile 1945. Un camion carico di partigiani sotto il comando di Aldo Lampredi e Walter Audisio – quest’ultimo è il famoso “colonnello Valerio”, autore materiale dell’uccisione di Mussolini e di Claretta Petacci a Giulino di Mezzegra – arriva a piazzale Loreto. Sull’autocarro ci sono i cadaveri del duce, di Claretta e di parecchi gerarchi fascisti fucilati a Dongo. Alle 3.30 del mattino, dopo alcune verifiche compiute dai comandi partigiani cittadini, i morti vengono scaricati e lasciati sul selciato. Una sorta di feroce e brutale contrappasso della storia. Più tardi si raduna una piccola folla e qualcuno si accanisce sulle salme, sfigurandole. Poi, questi ammassi di carne, che rappresentarono e gestirono il potere assoluto per vent’anni in Italia, vengono appesi a testa in giù al soffitto esterno di una stazione di servizio della Esso.
La scelta di quest’orrida esibizione sarà rivendicata da Aldo Lampredi in una lettera inviata alla Direzione del P.C.I. nel maggio del 1972. Scrive Lampredi: “La decisione di metterli in quel posto fu presa durante il viaggio di ritorno da Giulino di Mezzegra e, mi pare, su mio suggerimento. Di sicuro è che, quando partimmo da Milano (per fucilare Mussolini n.d.r.) questo problema non ci venne posto, né ci pensammo. […] Longo mi domandò dove avevamo lasciato i corpi dei gerarchi e quando gli dissi in piazzale Loreto, dove erano stati fucilati i quindici partigiani il 10 agosto del 1944, espresse disappunto, ritenendo che avessimo profanato il luogo. Gli risposi che, secondo noi, era un atto che rendeva giustizia a tutti i Caduti per la Liberazione.”
Un’ultima annotazione riguarda l’ideatore della rappresaglia tedesca, ovvero il capitano Theo Saevecke. Mentre il suo fascicolo accusatorio scompare per decenni dentro “l’armadio della vergogna”, nel dopoguerra egli diventa un agente della C.I.A. americana – nome in codice “Cabanio” – e poi scala i vertici del Servizio di Informazioni (BND) della Repubblica Federale Tedesca fino a diventarne il vice-direttore generale. Processato in contumacia dal Tribunale militare di Torino e condannato all’ergastolo nel 1999, non viene mai estradato dalla Germania e muore, nel suo letto e senza aver scontato alcuna pena, il 16 dicembre 2000, all’età di quasi novant’anni.
Oggi, ottant’anni dopo il massacro dei quindici “sospetti” partigiani a piazzale Loreto, ricordarne la vicenda e le conseguenze è un modo, non solo per onorare il loro sacrificio, ma anche per spiegare come la guerra – e soprattutto quella civile – riesce a trarre dall’anima umano le parti più violente e putride, quelle che ci rendono peggiori di qualsiasi animale.
Recentemente, infine, qualche idiota ha pubblicato sui “social” un’immagine della Presidente del Consiglio dei Ministri a testa in giù, in un chiaro richiamo ai drammi di piazzale Loreto. Ma non è così che si fanno i conti con la storia. Così si alimenta solo un odio inutile e pericoloso, che rischia di diventare un cancro inestirpabile nel tessuto della democrazia.
Per concludere il racconto degli avvenimenti del 10 agosto 1944 in piazzale Loreto a Milano, ho scelto i versi di Salvatore Quasimodo: “Temono/di voi la morte, credendosi vivi./La nostra non è guardia di tristezza,/non è veglia di lacrime alle tombe;/la morte non da ombra, quando è vita.”