Nel quotidiano fiorire di propagande e retoriche spacciate spesso per giudizi politici fondati su conoscenze più dichiarate che praticate, sempre meno ci si interroga, purtroppo, sulla complessità dell’attuale conflitto israelo-palestinese e sulle sue plurali radici, cedendo invece alla facile logica manichea che distribuisce, a suo piacimento, colpa e innocenza.
In tal modo, fra i molti e drammatici risvolti di questa esecrabile tragedia innescata da un sadico e criminale terrorismo fondamentalista, sta assumendo incredibili contorni di “normalità”, la riemersione dell’antisemitismo sulla frastagliata superficie del dibattito sociale in occidente. È una situazione che allarma – come ci ricorda Liliana Segre – non solo per le sue immediate ricadute sugli ebrei in ogni parte del mondo, che nessuna responsabilità hanno per le scelte politiche dell’attuale governo israeliano, ma anche e soprattutto per gli effetti di lunga deriva culturale e politica, che rischiano di incidere sui livelli di convivenza e di dialogo internazionale.
Si tratta di un antisemitismo decisamente innovato per alcuni versi e antico per altri. Nuovo, per i luoghi dove sta fermentando, ovvero quelle università dove alcune pavidità hanno concesso spazio a proteste che, partite forse da moti spontanei di una critica che può e deve essere libera dentro la democrazia, si sono rapidamente trasformate in strumenti di propaganda, esposti al rischio di essere governati da occulti interessi esterni e da pressioni destabilizzatrici.
Al contempo è un antisemitismo vecchio e poggiato su consuete tematiche: da quelle antisioniste a quelle del complotto universale ebraico, in una continua distorsione della storia e dei suoi processi di costruzione e decostruzione delle identità e delle nazionalità. Ma è anche un antisemitismo che pare essersi impossessato delle più evolute e penetranti tecniche propagandistiche, grazie a un utilizzo spregiudicato e incontrollato delle reti “social” e alla capacità di veicolarsi attraverso le immagini e i resoconti del conflitto in atto, in una sorta di “captatio benevolentiae” che sembra riscuotere crescente consenso. Infine, un antisemitismo, incontrastabile con i normali strumenti della cultura e della civiltà e che si sta sdoganando da sé medesimo, entrando nelle dinamiche narrative di altri influenti fenomeni contemporanei, come il populismo, il sovranismo e il negazionismo, in nome della tutela degli oppressi, dei quali peraltro e nel concreto della realtà, queste ideologie si occupano assai poco.
Dentro un voluto caos di menzogne, convenienze, omissioni, paure, ricerca del consenso e vigliaccherie di ogni sorta, si fa strada una narrazione che rovescia i termini stessi della vicenda storica, dischiudendo le porte a scenari imprevedibili e che rivelano, al contempo, tutto il portato di debolezza e fragilità delle democrazie stesse.
Ciò che comunque non possiamo fare, davanti a questo magma che preannuncia orizzonti sempre più cupi, è smettere lo sforzo di capire, di conoscere, di interrogare e di penetrare le motivazioni più profonde che hanno mosso e si muovono tutt’ora nelle tormentate geografie mediorientali e che poi si riflettono, quasi automaticamente, sulla cultura occidentale.
Per chi legge gli avvenimenti della contemporaneità con gli occhiali deformanti del pregiudizio “a prescindere” e per il quale comunque la responsabilità finale rimane in capo all’ebreo, serve poco discutere e confrontarsi. Per costoro è già pronta una verità preconfezionata e supportata da immaginarie “prove” che viene servita ogni giorno, da un composito quadro di imbonitori più o meno interessati e prezzolati, in una sorta di ripetizione didattica, sperimentata con la “lezione” dei negazionisti della Shoah, che tanto spazio ebbe nelle cronache e nei dibattiti degli anni Ottanta del secolo scorso.
Per chi invece non vuole piegarsi al convincimento a buon mercato, alle chiacchiere atteggiate, alle propagande ed alle predicazioni antisemite più elementari e coltiva ancora il dono del dubbio, provando ad indagare la storia per chiedere ragione del suo incedere, forse potrebbe essere utile qualche sguardo sulle cause profonde e lontane dello scontro in atto e che non ha mai trovato – caso forse unico nella storia – una soluzione di compromesso, degna di tale nome.
Va così preliminarmente chiarito come, l’antisemitismo che oggi riaffiora, non discende solo dall’antico pregiudizio cristiano o dal razzismo suprematista del nazifascismo, oppure dalla complicata questione del possesso storico della terra di Palestina o dall’urto frontale di due nazionalismi esasperati ed irrimediabilmente opposti fra loro. Anzi. Sembra invece trattarsi di un sentimento profondamente sedimentato dentro una determinata e parziale interpretazione religiosa dell’Islam, che poggia sulla negazione “tout-court” delle ragioni e del diritto all’esistenza dell’ebreo in quanto essere umano.
Oltre all’evidente analogia con la “Soluzione finale della questione ebraica”, si scorgono in questa declinazione particolari elementi di un radicalismo dogmatico che non ammette confronto; che rilegge la storia attraverso forzature dei testi sacri islamici e che narra, ad esempio, di inesistenti tribù arabe che avrebbero abitato la Palestina sin dall’epoca biblica. Tutto insomma è finalizzato ad un unico ed irrinunciabile obiettivo, ovvero quello di negare il diritto di Israele di esistere. Ciò alimenta ogni giorno false verità, non solo per il mondo arabo più moderato e tollerante e che rappresenta una larga maggioranza della cultura mussulmana, ma anche per il confronto politico dentro l’occidente, in un momento di particolare insicurezza ed incertezza.
La riesumazione dell’antica accusa del “complotto ebraico universale”, quindi non risponde unicamente al bisogno di un indefinito nemico al quale addossare la responsabilità dei fallimenti e degli errori politici del passato e del presente, ma anche alla necessità di compattare i mondi arabi attorno ad una lettura tanto rigida, quanto allineata alla predicazione khomeinista e che pone come obiettivo di vita per i credenti la distruzione totale dell’elemento ebraico nel mondo, quale premessa indispensabile all’avvio di una nuova età felice per l’Islam.
Ciò investe evidentemente ed anzitutto il nodo dei rapporti fra ebraismo ed islamismo. È un cammino lungo e non riassumibile in poche righe. Giova però ricordare come anche tale nodo rimane soggetto ad una ciclicità temporale, che alterna fasi di reciproco dialogo e rispetto a momenti di crudele persecuzione. Ma il racconto dell’esistenza di processi storici di accettazione ed integrazione degli ebrei dentro il mondo islamico trae origine, più che da una consolidata tradizione reale di tolleranza, da quel mito elaborato dall’ “intellighentsija” ebraica europea, alla fine del XIX secolo e nella cosiddetta “epoca d’oro”, in risposta alla lentezza dei processi di integrazione ebraica nella società occidentale. Quella costruzione narrativa sostiene che le ondate di violenza antisemita nel vecchio continente cristiano, non hanno mai conosciuto equivalenza e pari ampiezza nel mondo arabo-mussulmano.
In realtà, si tratta, come ricorda Georges Bensoussan uno dei maggiori contemporaneisti attuali, di una idea figliata dall’immaginario anziché dalla storia, posto che nella seconda metà dell’Ottocento le èlite ebraiche utilizzano il mito della “tolleranza” nella Spagna mussulmana del XV secolo, per affermare il proprio diritto di emancipazione, appropriandosi di un passato manipolato in funzione dei bisogni del presente. Questa versione trova oggi però grande ascolto, presso chi vuole far passare il concetto di una convivenza ebraico-araba nel passato quasi sempre “armoniosa” e che solo l’Europa del colonialismo e del sionismo ha guastato, aprendo le porte della Palestina agli ebrei. Parimenti mitologica appare, davanti all’analisi storica, la descrizione della condizione ebraica in terra araba, come quella di un “inferno quotidiano”.
Come sempre la verità sta probabilmente, se non nel mezzo, almeno altrove.
Il popolo arabo presente nelle terre definite con il toponimo di Palestina si è trovato, quasi improvvisamente, dentro il processo di “ritorno” ideato dal sionismo di Herzl, avvertendo lo stesso come fattore di erosione del suo mondo tradizionale, immobile e governato dalle Sure coraniche. L’impatto con una modernità forte ha quindi disorientato e destabilizzato un ritmo socio-economico, culturale e storico lento e sempre identico a sé stesso, rendendo tale friabilità ancor più evidente nel confronto con l’emancipazione progressiva del nuovo arrivato ebreo. Collera, smarrimento e paura, davanti a un’accelerazione della storia avvertita come angosciante, hanno preso il sopravvento, individuando, anche attraverso una rigida interpretazione coranica e della quale diremo poi, nell’ebreo, non solo il nemico assoluto e mortale, ma anche il protagonista attivo di un “complotto” per impossessarsi del potere. Quella “congiura” è pericolosa per il mondo arabo a causa del suo portato disgregante e perché veicola alcuni principi che sono in antitesi all’ortodossia islamica. Si tratta del ruolo nuovo ed emancipato della donna; della centralità del capitale finanziario, soprattutto nella sua declinazione americana e del protagonismo della sopravvivenza ebraica ad ogni costo, in terra di Palestina, dopo il baratro della Shoah. Accettare queste suggestioni significa minare alcuni fondamenti religiosi e questo è intollerabile. Il Corano, preso alla lettera, non ammette nulla di tutto ciò che la modernità introduce ed è per tale ragione che la identifica come nemico totale della fede, al pari dell’ebreo che è, secondo questa lettura, interprete di tale blasfemia.
Da qui forse discende almeno parte del dramma attuale.
Non limitando l’analisi del “complottismo ebraico” alla sola dimensione del pregiudizio cristiano – che peraltro si salda rapidamente e ancora nei decenni delle Crociate con preesistenti forme di rifiuto e di antisemitismo islamico – si scopre che la Profezia contenuta nel Libro si compirà , non tanto quando l’ultimo ebreo si sarà convertito in pace come indica il magistero cristiano, bensì quando quell’ebreo scomparirà definitivamente dal globo terracqueo, come invocano alcuni specifici versetti coranici, estrapolati peraltro dal loro contesto. Ma anche in questo caso serve qualche approfondimento.
Come è noto, il Corano è stato scritto, sotto dettatura del Profeta Maometto che era analfabeta, in due fasi distinte. La prima, scritta alla Mecca e detta della “Rivelazione”, è contraddistinta da un profondo ecumenismo, da una grande tolleranza e da una predicazione di pace e di fratellanza universale, che riguarda anche ebrei e cristiani. Il Verbo rivelato al Profeta dall’Arcangelo Gabriele è quindi in piena e totale continuità con il racconto testamentario, sia Vecchio come Nuovo e, in tale contesto, il Corano risulta essere passaggio conclusivo e perfetto della Profezia già contenuta nella Torah e nel Vangelo. Questo è il punto di vista passato e attuale – o almeno si spera – di tutti coloro che rifuggono dalle teorie violente del Jihad (la guerra santa contro gli infedeli) e dall’odio antisemita “a prescindere”.
A un certo punto della vicenda di Maometto, questo equilibrio fra le religioni del Libro si rompe.
Nel 622 d.C., il Profeta lascia la città della Mecca e, con i suoi seguaci, si trasferisce a Yathrib, che diventa in breve Medina, vale a dire “città” (Madina an Nabi – la città dei Profeti) e da quest’evento principia la narrazione mussulmana che giunge fino ai giorni nostri.
Maometto, non solo è il leader religioso della Medina/città, ma anche il suo capo politico e il suo legislatore e, in tale veste, impone la legge per la quale chi non si adegua convertendosi, deve essere eliminato. Nulla di nuovo per l’epoca, così come per la mentalità e le culture di quel tempo. I cristiani bruciano sul rogo gli eretici, le streghe e i giudèi, cioè coloro che si oppongono in qualche modo alla narrazione prevalente e i mussulmani fanno lo stesso con chi avvertono come estraneo alla loro legge e fede.
Com’è ovvio, i primi a subire le conseguenze di queste scelte radicali sono gli ebrei che abitano a Medina, da ben prima dell’arrivo di Maometto. Non si convertono e non accettano di combattere con i seguaci del Profeta contro i suoi nemici che stanno alla Mecca. In breve, cade così su di loro l’accusa di essere in combutta con gli avversari di Maometto stesso e quindi di aver complottato con loro, contro la comunità dell’Islam.
“Ça va sans dire”, si tratta ovviamente di una narrazione che deve essere contestualizzata e storicizzata dentro quell’epoca lontana e nel quadro di logiche e vicende del tutto diverse da quelli attuali. In altre parole, quel racconto, così come formulato e giunto a noi, va preso con tutte le cautele possibili, trattandosi di una vicenda di decine di secoli fa e che ci arriva attraverso migliaia di ripetizioni orali, con tutto ciò che esse comportano.
È infatti solo in un ambito di storicizzazione scientifica che i versetti antiebraici del Corano, come ad esempio le Sure 60 – 64, vanno letti. Essi riflettono l’asprezza di un confronto politico che avviene a Medina, fra islamici ed ebrei di quell’epoca e di quella società. Quei versetti andrebbero pertanto relativizzati – secondo un processo di rilettura delle fedi avvenuto in occidente attraverso l’illuminismo e il pensiero laico. Invece essi paiono avvertiti come “imperativo categorico” atemporale, cioè obbligo morale eterno ancor prima che materiale, per un determinato Islam ortodosso che, nel rifarsi alla tradizione antica e alla Sharia (la Legge sacra dell’Islam), non può e non deve mai essere interpretato, ma solo applicato letterariamente, perché la sua esistenza è eterna e quindi precedente e successiva al genere umano (teoria del Corano “increato”). Ecco perché i versetti antisemiti vengono tutt’ora presi in parola per come furono formulati quasi mille e quattrocento anni fa circa e, secondo quelle prescrizioni, l’ebreo deve essere sgozzato, in tal modo il suo sangue esce e inonda la sabbia del deserto che soffoca la sua anima malvagia. È già accaduto in Iraq e Siria negli anni scorsi ed è accaduto adesso, con il pogrom dello scorso 7 ottobre.
E’ quindi sul solido pregiudizio dell’ebreo quale nemico dell’“umma” (la comunità di fede) e del cammino di quest’ultima per il riscatto dell’umanità, che si basa anche la negazione islamica di Israele quale entità geografica, politica, sociale, storica e statale. Secondo teorie del tutto infondate, ma oltremodo care ad Hamas e al “verbo” dei Fratelli Mussulmani, addirittura Gerusalemme è sempre stata esclusivamente araba ed ogni altra presenza è pertanto falsa e abusiva e come tale va combattuta ed eliminata. Non c’è posto insomma per alcun dialogo.
Per Hamas, Israele deve semplicemente sparire dalla faccia della terra. È chiaro che di fronte a una simile perentorietà diventa quasi impossibile trovare soluzioni compromissorie, perché viene meno la volontà di trovarle e di metterle a frutto e perché manca il requisito essenziale del dialogo, cioè quello del riconoscimento dell’interlocutore.
Diverso approccio è quello legato al nazionalismo arabo. Secondo quest’ultimo, lo scontro in atto, ieri come oggi, è un fatto di natura politica e come tutti i confronti di questo tipo, prima o poi, può e deve trovare una via di compromesso accettabile. Posto che con le armi non si è fino ad ora risolto nulla, questa posizione araba interpretata in parte dal movimento politico di al-Fatah, esprime oggi la consapevolezza che in politica non esistono ostacoli insormontabili al ritrovarsi sul terreno della trattativa, come ha dimostrato l’Egitto di Sadat quando riconobbe formalmente Israele, al pari di quanto fecero poi la Giordania, gli Emirati Arabi Uniti, il Baharein, il Sudan e il Marocco negli anni scorsi.
Al contrario, nei limitati confini dell’estremismo jihadista, il dettato massimalista del Corano impone sé stesso come verità inconfutabile e prevalente e, in tal modo, a Maometto vengono attribuite profezie orribili, nella totale assenza di qualsiasi prova storica che siano mai state pronunciate. D’altronde, non va scordato come la biografia del Profeta viene stesa in oltre duecento anni e senza mai basarsi su fonti documentali, ma solo sulla trasmissione orale della testimonianza originale. Non v’è quindi chi non veda in questo procedere, la possibilità di mille manipolazioni di quella testimonianza e pertanto la sua totale inattendibilità scientifica, che non inficia però la sua forza dogmatica per la fede islamica. In tale dimensione, la realtà della storia e della successione dei fatti è annullata dalla pregnanza assoluta e totale della tradizione coranica che vince su tutto e tutti.
Al pari delle superstizioni, questi dogmi poggiano su ignoranze diffuse e su professioni di fede prive di qualsiasi angolatura critica. Hamas ne è consapevole e sfrutta tale situazione, offrendo una predicazione messianica, riferita alla “guerra santa” e basata su versetti indiscutibili nella loro fissa eternità, in quanto Parola stessa di Dio. Si viene così radicando un legame fra credenti e organizzazione politico-militare che si traduce in consenso, omertà e adesione alla lotta terroristica, ma anche in sudditanza e in sottomissione a un regime autoritario, intimamente violento e ricco di disprezzo per la vita dei suoi cittadini, come dimostra il cinismo politico e valoriale che consente l’uso dei civili quali “scudi umani” negli scontri del conflitto in atto. Questo terreno viene coltivato con un odio trasmesso generazionalmente – e alimentato anche da più che discutibili politiche di suprematismo israeliano – attraverso il quale si radicalizzano le posizioni e si allontanano in contemporanea le esili possibilità di una ripresa del dialogo capace di condurre, in progressione e sulla base del principio di autodeterminazione, all’orizzonte dei due Stati e della loro pacifica convivenza.
Un’ultima osservazione riguarda proprio il ben noto principio di autodeterminazione. Questione questa evocata più volte come diritto giusto e necessario del popolo palestinese ad una sua patria e se tale diritto, di wilsoniana memoria e unanimemente riconosciuto, vale per i palestinesi, non si comprende però per quale ragione non debba valere altresì per il popolo ebraico, a meno che non lo si ritenga “indegno” di una propria patria.
L’insieme di queste considerazioni non esime affatto dal sottoscrivere un giudizio profondamente critico e negativo nei riguardi dell’attuale politica israeliana. Protesa più a garantire l’immediato destino dei suoi protagonisti e a inseguire improbabili disegni messianici – che non a cercare ragioni di superamento dei limiti ideologici dei fondamentalismi teocratici e dell’estremismo racchiuso nella teorizzazione del “grande Israele”, dove si alimentano anche i pericolosi processi di colonizzazione in atto nell’area della Cisgiordania – la politica israeliana pare dimenticare l’urgenza di individuare un comune punto di caduta, dal quale partire per dar corpo all’unica soluzione percorribile, ovvero quella dei due Stati per due popoli. Al contempo, il rischio di un isolamento internazionale di Israele incombe come una tempesta su un Paese che fatica a trovare nuovi equilibri interni e convivenze fra opposte pulsioni, capaci di portare, nella loro esasperazione, a una irrimediabile frattura intestina e quindi a una possibile implosione dello Stato, con conseguenze inimmaginabili.Ciò che premeva qui affrontare però era altro, ovvero le radici di questo nuovo antisemitismo che sta dilagando e che non può non preoccupare qualsiasi coscienza autenticamente democratica e non schiava del pregiudizio.