Pare che la val di Cembra, oltre che terra di (ex) ciclisti innamorati e di grappa di contrabbando, sia pure una valle di santi. O ritenuti tali (almeno dal popolo). Noi, che abbiamo radici in quegli “sgrebeni” scavati dall’Avisio, non possiamo che menarne vanto. Anche se… Intanto a Capriana e a Lisignago hanno suonato le campane a festa.
Converrà, a questo punto, partire dalla fine. Dalla firma apposta a mezzogiorno di giovedì 23 marzo 2023 dal papa di Roma, Francesco, sul documento che ha dato il via al complesso iter burocratico-procedurale per la proclamazione delle “virtù eroiche” di due donne nate nel XIX secolo in val di Cembra-Fiemme. Si tratta di Maria Domenica Lazzeri (1815-1848) da Capriana e di Amelia Rossi (1890-1945), in religione suor Leonilde, nata a Lisignago e morta sul lago di Bracciano, vicino a Roma. Per 12 anni fu superiora generale della congregazione delle suore dei “Sacri cuori di Gesù e Maria”.
Conoscendo poco della sua agiografia (c’è una pubblicazione: “Madre Leonilde Rossi, maestra di vita”, 2013) spostiamo l’attenzione sull’altra candidata alla gloria degli altari, essendocene occupati con un libricino dato alle stampe nel 1991 (“Maria Domenica Lazzeri – La Meneghina una donna già chiamata “beata”).
Ed è quantomeno singolare che il papa di Roma spalanchi le porte dell’iter beatificante nel giorno in cui i musulmani avviano il digiuno del Ramadan. Trenta giorni nei quali i devoti di Allah si astengono da cibo, bevande e persino dal fumo. Un digiuno che dura da prima dell’alba al tramonto. In tale periodo, i musulmani si dedicano a opere di misericordia: elemosine e sostegno dei deboli.
Ecco, il completo digiuno, la totale astinenza dal cibo e dall’acqua, fu una delle patologie che accompagnò gli ultimi 14 anni della breve vita della Meneghina (appena 33 anni). Tale disturbo oggi sarebbe classificato come “anoressia di lunga durata” ma nella prima metà dell’Ottocento fu vista, almeno dai compaesani, come una manifestazione soprannaturale.
Quanto alla Chiesa, i preti che si alternarono al capezzale della povera donna, a Capriana, ebbero chi più chi meno impressioni di stupefatta meraviglia. Il principe vescovo, Giovanni Nepomuceno de Tschiderer, che in quel periodo (1834-1860) governava il principato e la diocesi di Trento, fu sempre molto scettico. Diede ordine ai suoi preti di tenerlo costantemente informato sul decorso della “strana malattia” della quale soffriva la Lazzeri. Tuttavia si guardò bene dall’avallare, anche con una sola visita personale, ciò che da Capriana si era diffuso sui giornali di mezza Europa e perfino in Australia. Quando le visite dei curiosi, a Capriana, si fecero insistenti e cominciavano a creare all’inferma disturbi e disagio, il vescovo Tschiderer proibì perfino di avvicinarsi alla casa della Meneghina.
Anche perché si era diffusa la voce che, a partire dal 1835, alla poveretta si fossero formate piaghe alle mani, ai piedi e al costato, come quelle del Crocifisso che aveva accanto al letto. Nel linguaggio della Chiesa cattolica si chiamano “stimmate”. A quel punto, il vicario generale della diocesi di Trento, Freinademetz, aveva scritto al cappellano di Capriana, Michele Santuari: “Si tratta di affare assai delicato e difficile, in cui conviene procedere colla massima prudenza e circospezione”, poiché “i più accreditati maestri di spirito inculcano che in tali casi […] conviene esser lenti assai nel prestar credenza […] Non parlo d’inganni maliziosi ma innocenti, che possono facilmente aver luogo”.
Ciononostante, scriveva Giulio Gottardi, parroco di Varena, “non cessa la smania del popolo di visitarla: ogni giorno si trova in Capriana gran tumulto di gente e il Primissario [il prete che diceva la messa all’alba] permette ad alcuni l’ingresso; ad alcuni altri a capriccio lo nega. Onde il popolo è affatto indispettito di questo parziale contegno del Primissario e si mette al repentaglio di ricevere personali affronti ed ingiurie se, in breve, non muta tenore e non usa prudenza”.
Nel 1834 al capezzale della Lazzeri fu chiamato il medico di Cavalese, Leonardo Cloch (poi direttore del “civico spedale” di Trento) il quale, assieme al chirurgo rurale Joris, visitò a lungo l’ammalata. Tornò a Capriana l’anno seguente, al tempo delle “stimmate”. Anni dopo avrebbe inviato una lunga relazione a un congresso medico, che si teneva a Napoli, per chiedere ai colleghi qualche indicazione di terapia. Al medico di Cavalese, Domenica Lazzeri non fece vedere le piaghe anche se il sanitario notò chiazze di sangue rappreso attorno alle mani. Dormiva rannicchiata a letto, con la finestra della camera sempre aperta, giorno e notte, estate e inverno. “Quando a qualcuno di mia casa – dichiarò al sanitario la povera donna – è venuto il capriccio di chiuderla, fu pur questi costretto e tosto ad aprirla poiché sarei morta di soffocamento”.
Le piaghe che non fece vedere, dichiarò che sanguinavano ogni venerdì. Nel corso di una terza visita da parte del medico Cloch lei dichiarò che “dal 2 maggio 1834 più non riposò, più non bevve stilla di acqua, più non ingoiò briciola di pane”.
Allontanati i curiosi, fu consentito solo a qualche “illustre personaggio” di accostarsi al capezzale di Maria Domenica Lazzeri. Tra questi Antonio Rosmini, il prete-filosofo roveretano il quale salì a Capriana il 4 ottobre 1842 assieme all’arcivescovo Polding di Sidney, giunto in Tirolo dall’Australia. Don Giovanni Battista Pagani, che accompagnò Rosmini e il cardinale, scrisse: “A Capriana abbiamo veduto la Domenica Lazzari, chiamata comunemente l’addolorata, che produsse tanto in me che in mons[ignore] una grande impressione”.
Maria Domenica Lazzeri morì il 4 aprile 1848, a 33 anni. Era un venerdì santo e tanto bastò alla folla di devoti che il 10 aprile la accompagnò al cimitero per proclamarla subito “beata”.
Capriana era un villaggio di appena 200 abitanti, di difficile accesso, pressoché sconosciuto. Fu la “singolare malattia” della Meneghina a propagarne l’esistenza. I resti di Maria Domenica Lazzeri furono esumati tre volte: nel 1876, 1944, 2000. Non furono trovate che poche ossa e qualche frammento di ceralacca. Chi cercava una relazione sulla vita della Meneghina – un documento che di certo doveva essere stato interrato con lei – restò deluso. Ciò che scrisse il curato, subito dopo la morte della donna, andò distrutto assieme all’archivio e alla canonica. Il vasto incendio del 3 agosto 1861 incenerì pure la chiesa e la maggior parte delle abitazioni del villaggio altocembrano.
Nel frattempo continuavano a giungere a Capriana devoti e curiosi, taluni lasciavano testimonianza di presunte “grazie”, ottenute per il tramite della Meneghina. Uno studio fu compiuto a livello diocesano nel 1944. All’inizio degli anni Ottanta del XX secolo, si riprese a sondare la possibilità di far diventare beata colei che per la popolazione di Capriana era ed è la “beata” per antonomasia. Il lungo cammino verso la concretizzazione di un’ipotesi cominciò ufficialmente la mattina del 4 aprile 1995, un martedì, a 147 anni dalla morte di questa giovane donna. Quel giorno, a Capriana, l’arcivescovo di Trento, Giovanni Maria Sartori, avviò la complessa procedura canonica, il processo conoscitivo sulla vita e le opere di Maria Domenica Lazzeri. Cinque anni dopo, il 14 settembre (Esaltazione della Croce), nel palazzo della curia arcivescovile, a Trento, fu chiuso il “processo diocesano”. L’arcivescovo Luigi Bressan, letti gli atti di rito, pose i sigilli su tre plichi: due inviati a Roma per l’iter successivo, il terzo affidato all’archivio diocesano.
Tre giorni prima, lunedì 11 settembre, dalla tomba terragna nel cimitero di Capriana erano stati esumati i resti di Maria Domenica Lazzeri: pochi pezzetti di ossa, fragili e ingialliti (“parevano finferli secchi” commentò il parroco Giovanni Florian), e una cinquantina di chiodi arrugginiti. I resti cioè della cassa interrata dopo l’esumazione del 1944. Tutto fu riposto in un’urna ai piedi dell’altare dell’Addolorata, nella parrocchiale.
E adesso? Nei giorni scorsi è stato a Capriana un italo-americano, Giulio Picolli, 82 anni, il quale ha dichiarato di essere guarito da una grave malattia grazie alla “intercessione della Meneghina”. Il vicepostulatore della causa, Giulio Viviani che fa il parroco a Mezzocorona, attende in proposito una documentazione medica. Quanto a Capriana, c’è un comitato “amici della Meneghina” (circa trecento, molti dei quali all’estero) che da anni raccoglie offerte e petizioni per far arrivare la “Beata” sugli altari. Luciano Dallio, il presidente, dice che la strada è ancora lunga. Non rivela quanto denaro è stato speso, finora, per l’iter della “causa”.
Si sa, peraltro, che la “fabbrica dei santi” ha bisogno di denaro. Molto denaro. Quando il papa Woytjla venne a Trento (29-30 aprile 1995) per proclamare “beato” il vescovo Nepomuceno de Tschiderer, l’allora arcivescovo Sartori gli mise in mano una busta con un assegno a nove zeri. Ma quello era il ringraziamento della diocesi per la visita del Papa. Quel che è certo è che portare un “venerabile” alla pubblica venerazione, cioè farlo dichiarare “beato” e poi, magari, perfino “santo”, oltre a un miracolo, un evento scientificamente inspiegabile, servono soldi. E magari, per chi ci crede, anche orazioni.
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