Accadde giusto cinquant’anni fa, il 31 maggio 1972, a Peteano, una località nel comune di Sagrado in provincia di Gorizia. Ma ci vollero dodici anni prima che fosse dato un nome e un cognome agli autori della strage nella quale morirono tre carabinieri e due furono gravemente feriti. Fu un agguato premeditato.
Lo scoppio di una vettura imbottita di esplosivo fece indirizzare le indagini verso la cosiddetta “pista rossa” e, in subordine, nelle paludi della criminalità comune. Il capovolgimento dell’inchiesta e la svolta nel mondo dell’eversione nera si ebbe nel 1984 quando un estremista di “Ordine nuovo” confessò la strage indicandone autori e mandanti. Tuttavia, molti interrogativi restarono a mezz’aria o senza risposta. Adesso, il giornalista Paolo Morando, cronista di punta del fu giornale “Il Trentino”, pubblica un volume che Carlo Martinelli, altra grande firma di quel quotidiano, recensisce in anteprima per iltrentinonuovo.it
C’è quell’esergo, quella dedica iniziale, prima di tutto. “Ai giornalisti senza più un giornale”. Che ai lettori di Milano o di Palermo – e sono tanti, sempre di più, in tutta Italia – potrebbe sembrare solo eccentrica, ma che a Trento, la sua città, trova ovviamente una lettura particolare. Perché qui si parla di Paolo Morando, classe 1968, oggi nelle librerie con la sua più recente fatica: “L’ergastolano”, sottotitolo: “La strage di Peteano e l’enigma Vinciguerra”, Laterza l’editore come per le sue quattro precedenti, lodatissime, ricerche storiche, 304 le pagine, 18 gli euro necessari per portarselo a casa ed immergersi in una lettura che sarà contrassegnata da una continua, stupita ed amara esclamazione: “Non è possibile”. Ed invece lo è stato, eccome. Meglio: lo è Stato, eccome.
Però, prima, la dedica. Perché Paolo Morando è uno dei diciotto giornalisti che da un giorno all’altro si sono trovati in cassa integrazione a zero ore in seguito alla subitanea chiusura del quotidiano “Trentino”, ex “Alto Adige”, dove lavorava da anni. La meritata fama di storico delle vicende più recenti del nostro Paese , in particolare per quel che riguarda gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta del secolo scorso, gli ha permesso certo di scrivere per “Huffington Post”, “Internazionale”, “Domani”, “L’Essenziale”, per la rivista “il Mulino” e per blog “minima&moralia” (scusate se è poco…) ma non ha rimarginato la ferita della traumatica fine di una esperienza giornalistica che ha permesso al Trentino di avere ogni giorno nelle edicole, per 75 anni, il quotidiano più libero e laico del dopoguerra.
Epperò il legame di questo suo nuovo libro-inchiesta con il Trentino non si esaurisce certo nella affettuosa e dolorosa dedica ai colleghi giornalisti senza giornale. Perché questa serrata e documentatissima indagine sulla strage di Peteano (31 maggio 1972, nei pressi di Gorizia, un’auto esplode uccidendo tre carabinieri) incrocia eccome Trento e il Trentino. Cosa che era successa solo marginalmente per le precedenti inchieste: “Dancing Days. 1978-1979. I due anni che hanno cambiato l’Italia” del 2009, “’80. L’inizio della barbarie” nel 2016, “Prima di Piazza Fontana. La prova generale” del 2019 e il recente, sono pagine dell’anno scorso, “Eugenio Cefis. Una storia italiana di potere e misteri “.
Una cosa alla volta. Prima di tutto, il cuore del libro. Lo spiega bene il retro di copertina, che ci piace pensare compilato dallo stesso autore, tale è la chiarezza. Leggiamo, dunque.
Cinquant’anni fa, vicino a Gorizia esplodeva un’auto uccidendo tre carabinieri. Il colpevole di quella che fu chiamata la ‘strage di Peteano’ è Vincenzo Vinciguerra, unico reo confesso di tutta la strategia della tensione, condannato all’ergastolo. Ma è veramente tutto chiarito o esistono ancora delle verità nascoste che meritano di essere raccontate?
La sera del 31 maggio 1972 una telefonata anonima ai carabinieri di Gorizia segnalò la presenza, a Peteano, di una Fiat 500 abbandonata a bordo strada. All’apertura del cofano esplose una bomba, uccidendo i tre carabinieri che la stavano controllando e ferendone un quarto. Di tutte le stragi fasciste, questa è la più singolare per la presenza di un reo confesso: Vincenzo Vinciguerra di Ordine Nuovo. La sua “assunzione di responsabilità” arrivò solo nel 1984, dopo indagini svolte prima in direzione di Lotta Continua, poi verso un gruppo di goriziani, assolti dopo oltre un anno di carcere. In seguito si scoprì che alti ufficiali dell’Arma (ma la polizia non fu da meno) protessero i neofascisti che avevano ucciso tre loro commilitoni. Anche il segretario del Msi, Giorgio Almirante, fu rinviato a giudizio per favoreggiamento e sfuggì al processo solo grazie a un’amnistia. Oggi Vinciguerra continua a dichiararsi combattente contro lo Stato e non ha mai usufruito di alcun permesso. Con un racconto incalzante, il libro fa luce sugli aspetti ancora in ombra della strage e sullo stesso Vinciguerra, intervistato in carcere, svelando una storia italiana ancora oggi difficile da accettare.
Una storia impossibile da accettare, ci permettiamo di aggiungere. E meritorio il certosino lavoro di Morando – testimoniato anche dall’indicazione delle fonti e dalla bibliografia – ma, soprattutto, arricchito dalle decine di interviste sul campo. Su tutte, le quindici pagine del faccia a faccia con Vincenzo Vinciguerra nel carcere di Opera, 27 gennaio 2022. Al lettore attento non sfuggirà che in più di un passaggio l’autore della strage è in difficoltà rispetto alle puntuali, documentate ed incalzanti domande del giornalista.
Impossibile rendere conto del viluppo di trame, provocazioni, deviazioni, segreti che ruotano attorno alla tragica fine dei tre carabinieri: il brigadiere Antonio Ferraro, i carabinieri Donato Poveromo e Franco Dongiovanni. Ed incredibile appare la figura di Vincenzo Vinciguerra. Un enigma, scrive Morando, come la storia recente del nostro Paese.
Sin dall’adolescenza, era nato nel 1949, cerca un movimento a cui unirsi per combattere la propria guerra contro lo stato italiano. Sia il Movimento Sociale sia Ordine Nuovo lo deludono. Si dedicherà quindi all’attività terroristica, culminata nella strage di Peteano e nel dirottamento aereo di Ronchi dei Legionari (altra vicenda dimenticata) per poi diventare latitante. Vinciguerra si consegnerà spontaneamente alla polizia italiana nel settembre 1979. Dal carcere e in tribunale denuncerà i depistaggi con cui gli alti ufficiali dell’Arma e la polizia coprirono lui e gli stragisti neofascisti.
Perché? Già, perché? Il libro di Morando mette in fila nomi, fatti, ipotesi, documenti, soprattutto processuali: migliaia le pagine lette. Lo fa in quindici capitoli e i trentini che lo prenderanno in mano leggeranno d’un fiato (ed è augurabile che siano molti i giovani a farlo, giacché a loro manca la necessaria memoria del passato, bagaglio indispensabile per affrontare al meglio il futuro) il settimo capitolo. Si intitola “Le bombe di Trento”. Una ventina di pagine per ricostruire una delle pagine più nere riguardo chi (uomini dell’Arma, soprattutto) nel segno di un anticomunismo cieco venne ignobilmente meno al compito di essere sì nei secoli fedele, ma alla democrazia e non certo a chi, in quegli anni di grande cambiamento sociale, cercò in tutti i modi (tutti, ci siamo capiti) di ferire e forsanche di eliminare proprio la democrazia. Lettura amaramente consigliata, consigliatissima.
Le bombe di Trento, dunque. Soprattutto, per fortuna, la bomba che non esplose. Quella collocata davanti al Tribunale della città il 19 gennaio 1971. In uno zaino esplosivo in quantità tale da provocare una strage. Quella dei partecipanti alla manifestazione programmata per un processo a due militanti di sinistra. Il processo fu rinviato, la manifestazione pure e la bomba fu disinnescata. Raccontato così, sembra tutto semplice. Nel racconto di Paolo Morando i risvolti sono ben più inquietanti. Così come i capitoli di quei mesi di tensione e provocazione: il trenta luglio alla Ignis; le rivelazioni di Lotta Continua (all’epoca ignorate completamente o quasi); finanza, polizia, carabinieri, Sid: tutti dentro (tornano i nomi di Santoro, Molino, Pignatelli, del generale Palumbo); i bossoli spariti e il valzer dei verbali; le pile di Cristano de Eccher, l’ex leader di Avanguardia Nazionale, futuro senatore di Alleanza Nazionale. Tutte storie da decifrare, certo. Altrettanto certamente proprio il Trentino ha in casa un decifratore mai domo. Che sforna libri che parrebbero la versione documentata ed incalzante di un romanzo alla “Segretissimo”. Invece, è tutto vero. E’ stata cronaca, è storia. Viva i decifratori.