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    Home»Razzismo&Antisemitismo»Uno spettro si aggira per l’Europa
    Razzismo&Antisemitismo

    Uno spettro si aggira per l’Europa

    Renzo FracalossiBy Renzo Fracalossi14 Aprile 2022Nessun commento9 Minuti di lettura
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    La conclusione del secondo conflitto mondiale e la scoperta graduale dell’infinito baratro della Shoah non ha affatto cancellato lo spettro dell’antisemitismo ed il problema, anziché scomparire inghiottito dall’orrore, trova nuova linfa e quindi riaffiora ciclicamente nella vicenda contemporanea del vecchio continente. L’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo ne è la plastica tragica conferma.

    In realtà le accuse mosse agli ebrei sono sempre le solite, ma con il progressivo globalizzarsi delle economie, la paura di un “occulto dominio finanziario ebraico” sembra trovare nuovo pubblico. Al posto dei Rotschild o degli Hirsch adesso c’è Soros, mentre il sionismo viene percepito, non più come un movimento politico di matrice nazionalista, bensì come un disegno teso a saldare gli interessi degli ebrei sparsi nel mondo con quelli dello Stato di Israele, in danno ad altre nazioni e mercati. In questo contesto il termine “sionista” assume i più svariati significati; non suona così preoccupante come “antisemita”, ma serve, di volta in volta, ad identificare l’ebreo guerrafondaio, il capitalismo internazionale, il lobbismo cosmopolita, l’oppressore di altri popoli, l’alleato del marxismo o dei nazionalismi, secondo la convenienza narrativa. “Sionista” diventa perfetto per ogni causa: Sion è la collina di Gerusalemme, ma rappresenta anche il luogo ideale dove, come già narrato nei “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”, si raduna una “perenne assemblea segreta” di ebrei che cospira per impossessarsi definitivamente del governo mondiale. E’ così che antisionismo diventa sinonimo di antisemitismo come ci raccontano alcuni casi dell’Europa di oggi.

    L’ Olanda, ad esempio, è terra nota per la sua tolleranza. Qui gli ebrei in fuga dalla Spagna nel 1492 si sono rifugiati ed hanno messo radici. Amsterdam è diventata perfino la”Gerusalemme dell’ovest” e qui gli operai olandesi sono scesi in sciopero, nel 1941 durante il periodo di occupazione tedesca, per protesta contro le retate dei loro connazionali ebrei. Ma l’Olanda è anche quella che fornisce il più corposo nucleo di Waffen SS dell’Europa occidentale ed è qui che si consuma il dramma di Anna Frank e della deportazione di oltre 105.000 ebrei, in proporzione la quota più elevata di tutto l’occidente. Nel dopoguerra gli olandesi sono al fianco di Israele fin dalla sua fondazione, almeno fino a quando la bussola degli affari mondiali non vira decisamente verso oriente e verso i ricchi giacimenti petroliferi arabi. Cambiano gli interlocutori ed anche le opinioni politiche e così si gettano le basi, in Olanda, per un nuovo antisemitismo che trova alimento nelle tifoserie calcistiche, ma anche fra alcuni intellettuali come Theo Van Gogh che sobillano un razzismo sempre più estremista e che fanno dei Paesi Bassi un posto molto meno sicuro di un tempo per gli ebrei d’Europa.

    Nella vicina Francia le cose non vanno affatto meglio. Fino alla “guerra dei sei giorni” l’opinione pubblica francese è decisamente filoisraeliana ed anche filoebraica, ma l’antico antisemitismo francese cova sotto la cenere e torna a galla verso la fine degli anni ‘50 quando un ex deportato, Paul Rassinier, in una sorta di delirio individualista arriva a definire pubblicamente “esagerate e tendenziose” le testimonianze dei sopravvissuti alla Shoah, generando una prima corrente di negazionisti, alla quale faranno seguito negli anni ‘80 le farneticazioni di Robert Faurisson e la rinascita di una estrema destra antisemita come quella del “Front National” dei Le Pen, padre e figlia. Su questo terreno già dissodato, mettono radici poi le emergenze sociali delle periferie dei grandi centri urbani e dell’innesto di una emigrazione araba sempre più attratta dal radicalismo islamico. Si tratta, per gli ebrei francesi, di una miscela esplosiva e che li porta, negli anni duemila, ad emigrare massicciamente verso Israele, anche a seguito di più di un attentato di chiara matrice antisemita ed antisionista.

    Anche l’Italia non è esente da questi fenomeni post-bellici. Qui l’antisemitismo è sempre stato a forte radice cattolica e forse più di natura culturale che xenofoba. La pesante e dolorosa parentesi fascista, con il drammatico bagaglio delle leggi razziali del 1938, ha lasciato però qualche traccia che riemerge alla luce della storia soprattutto con la fine delle epurazioni antifasciste. Molti ex fascisti e repubblichini sono reintegrati nello Stato e nelle sue strutture, in nome di una voluta pacificazione nazionale e dentro un grande e confuso “calderone del perdono e della dimenticanza” dove tutto pare potersi cancellare. Così anche i radicati convincimenti antisemiti si saldano nuovamente dentro la nuova destra missina prima ed eversiva poi e le comunità ebraiche italiane subiscono violenze e sfregi di vario genere, anche in virtù di un ottuso silenzio della Chiesa che, solo con il Concilio Vaticano II e con l’enciclica di Paolo VI “Nostra Aetate” avvia una meritoria opera di ritrovato dialogo e di fraternità culminata con la visita di Giovanni Paolo II al Tempio maggiore di Roma. Ma in Italia l’antisemitismo si allarga non poco anche a sinistra, soprattutto dopo la guerra del 1967 fra israeliani e palestinesi. Sono anni in cui il contrasto è netto e radicale, anche per ispirazione di Mosca e dell’intera galassia del socialismo internazionale che vede in Israele l’alleato più fedele dell’imperialismo americano. In breve ed a prescindere da ogni considerazione logica e da ogni valutazione asettica, i palestinesi diventano le vittime comunque e gli israeliani – e quindi gli ebrei per estensione – rimangono comunque i carnefici. In questo trabocchetto inciampa quasi tutta la sinistra italiana, ritrovandosi così, pur senza volerlo, al fianco della destra neofascista e senza mai riuscire ad ammetterlo. In una simile mescolanza l’antisemitismo italiano torna a fermentare e nel 1982 raggiunge forse il suo apice, quando un piccolo ebreo, Stefano Gay Tachè, viene ucciso in un attentato alla Sinagoga di Roma. Da quel momento inizia una lenta inversione di tendenza che porta all’istituzione, per legge, della “Giornata della Memoria” e ad una nuova sensibilizzazione delle giovani generazioni. Ciò non significa però fermare l’antisemitismo che trova, come in Francia, fertile seguito nelle periferie urbane, nel degrado sociale, nelle tifoserie calcistiche ed ovunque la crisi economica e culturale colpisce più duramente, fino agli ultimi orribili episodi contro la senatrice a vita Liliana Segre o nelle incredibili esibizioni di un parallelismo inesistente fra Shoah e norme anticontagio.

    Anche in Austria i rigurgiti antisemiti non mancano nel dopoguerra. C’è la “guerra fredda” e la piccola repubblica è un bastione contro il nemico sovietico. In nome della paura del comunismo tutto può essere superato e così l’Austria ritorna alla sua dimensione borghese e dimentica. Dimentica quasi tutto, nonostante l’impegno di uomini come Simon Wiesenthal che spende la vita a caccia di nazisti per assicurarli alla giustizia, in nome dei milioni di vittime della follia antisemita. L’Austria dimentica al punto che alla fine si ritrova un Presidente della Repubblica che è un ex ufficiale nazista, sospettato di crimini di guerra. La “cattiva coscienza” degli austriaci è alimento per il rinnovarsi di un mai sopito antisemitismo che trova nel populista Jörg Haider un ascoltato leader e nella destra dell’O.V.P. attuale dell’ex Cancelliere Kurz un collettore di voti e di malcontento pronto a sfociare nel razzismo, nella xenofobia ed in un “nuovo/vecchio” antisemitismo.

    In Germania, nonostante le apparizioni di supposti eredi del nazismo come i movimenti AfD o “Pegida”o il magmatico movimento naziskin, la coscienza democratica ha messo profonde radici ed i tedeschi hanno fatto e tutt’ora fanno apertamente i conti con la loro storia recente. La riunificazione tedesca non ha certo risolto tutti i problemi. Anzi. I Länder orientali dell’ex D.D.R. sono diventati un serbatoio di malcontento sociale e di sentimenti di rivalsa sulle difficoltà connesse proprio alla riunificazione. È in questo contesto che ha ripreso vigore anche l’antisemitismo, benché esso appaia molto circoscritto e sotto il controllo di una democrazia autorevole e diffusa. Larga parte della gioventù tedesca è cresciuta dentro un quadro a forte connotazione democratica e rifiuta tutto l’antico complottismo antisemita, spingendo invece molto sul terreno del dialogo e dell’integrazione, non solo con gli ebrei, ma anche con i milioni di emigrati di cultura islamica, anche nella consapevolezza che proprio costoro potrebbero rivelarsi “alleati” dei movimenti più estremisti e filonazisti.

    Infine, la Polonia. Qui l’antisemitismo è di casa da sempre, al punto che nell’immediato secondo dopoguerra è proprio a Kielce, nel 1946, che si scatena l’ultimo grande pogrom antisemita d’Europa, mosso dall’incredibile accusa di omicidio rituale, ma in realtà legato all’idea che dietro gli ebrei si celi l’Unione Sovietica e la sua occupazione di fatto della Polonia. Ancora una volta l’equazione “ebreo=comunista” fa presa sull’immaginario popolare e si unisce all’antica diffidenza del cattolicesimo polacco ed alle credenze più arcaiche, per le quali il “perfido ebreo” è genericamente il nemico del “buon polacco”. Nel 1968 riappare la pubblicazione dei “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”, mentre si fa strada una nuova equazione politica, fondata sul collateralismo fra Bonn e Tel Aviv negli anni ‘70. Un’asse politico-ideologica che presuppone ipotetiche collusioni fra sionismo e nazismo in chiave anticomunista, secondo lo slogan “ebreo è sionista e sionista è fascista” e quindi ancora una volta nemico.

    Nemmeno la caduta del comunismo e l’avvento di una forma di democrazia, per quanto ancora incerta, cambia radicalmente la situazione. La Polonia avverte forte il bisogno di “smarcarsi dalla storia” e soprattutto dalle sue vaste e provate complicità nell’Olocausto. Il tentativo di cambiare la narrazione prova a porre sullo stesso piano la persecuzione nazista contro gli ebrei e quella contro i polacchi ed è in questo tentativo che si annida un risorgente antisemitismo, condiviso anche con l’Ungheria di Orban e dentro leggi come quelle che negano il coinvolgimento polacco nella Shoah, che impongono un controllo alla magistratura o che limitano i diritti civili. Sotto il cielo d’Europa insomma, tutto cambia per non cambiare. Il nemico è sempre l’infido ebreo e tutti gli altri sono le sue vittime. Stiamo facendo passi indietro nella storia e perdiamo la capacità di conoscere e di distinguere. Solo così qualcuno può sfilare con i simboli della persecuzione antisemita, paragonando l’imparagonabile ed indicando nelle norme contro la pandemia una nuova forma di “dittatura sanitaria”. Forse siamo su di una pericolosa china. Sta a noi, all’impegno di ognuno, evitare di ruzzolare di nuovo nell’orrore.

    (19 – continua – Le precedenti puntate sono state pubblicate in rete il 22, 27 settembre; 5, 11, 21, 27 ottobre; 6, 12, 21 novembre, 9, 19, 26 dicembre 2021; 1, 14 gennaio, 1, 10, 20 febbraio, 8 marzo 2022)

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    Renzo Fracalossi

    Renzo Fracalossi, è nato a Rovereto il 5 luglio 1961. Risiede a Trento dove, dopo gli studi umanistici, lavora nella pubblica Amministrazione. Presiede l'associazione culturale "Club Armonia"; è componente della "Società di Studi Trentini di Scienze storiche" e della S.O.S.A.T. Ricercatore e divulgatore, si occupa da decenni di approfondire e narrare l'antisemitismo e con esso la Shoah e di indagare la storia locale. Collabora con università e centri di ricerca europei su tali questioni ed ha all'attivo alcune pubblicazioni e contributi. È autore teatrale, iscritto alla S.I.A.E., con testi rappresentati in sede locale e nazionale.

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