“Chissà se la luna di Kiev è bella come la luna di Roma…” si chiedeva nel 1955 il poeta Gianni Rodari. Di certo, nella notte del venerdì di passione, la luna di Storo è simile a quella di Kiev; meno, molto meno a quella del Colosseo. Perché a Storo, la sera del Venerdì santo, il riferimento all’aggressione e all’aggredito è emerso dalle riflessioni-orazioni preparate dai giovani dell’oratorio parrocchiale. A Roma, Francesco pontefice, si è puntato sulla famiglia. Certo, c’erano, non senza polemiche pre e post processione, due amiche immigrate – una ucraina, l’altra russa – che alla 13a Stazione della Via Crucis, hanno portato la croce. In nome e per conto di tutti i poveri cristi della storia, anche recente. Per sottolineare, coi passi felpati della diplomazia vaticana, che l’invasione di Putin non è la guerra del popolo russo. Che governanti e governati, specie nei regimi dittatoriali, non sono la medesima pasta.
Nella tiepida notte di Storo, i colpi di martello sui due tronchi d’abete portati da 32 “batedür”, più che le martellate per inchiodare il Crocifisso rimandavano l’audio internazionale delle immagini televisive dall’Ucraina. Dopo tre anni, la “processione delle bòre” è tornata a rompere il silenzio di una prolungata agonia da contagio.
Su codesta singolare manifestazione della devozione popolare ci capitò di scrivere in un volume pubblicato giusto vent’anni fa (“La terra dei Padri”, 2001). Si raccontava di una pratica interrotta la vigilia della seconda guerra mondiale dal parroco del tempo, Luigi Colmano da Levico (1891-1956). Titolare della “cura d’anime” nella popolosa borgata di Storo, s’era visto costretto a censurare l’appuntamento tradizionale poiché tra i figuranti c’era chi si lasciava andare al turpiloquio. In particolare il protagonista, colui al quale era affidata la parte di Cristo. Il quale doveva attendere seminudo la processione che sfilava mesta e solenne lungo le vie dell’abitato. Per contrastare il vento gelido che spirava dalla gola del Pàlvico, al posto della spugna imbevuta di aceto offrivano al “condannato” e ai due ladroni in mutande abbondanti sorsate di grappa. Quand’erano issati sulla croce, i tre disgraziati smoccolavano come carrettieri. E se rendevano verosimile la messinscena, creavano non pochi grattacapi al povero prete il quale, consultatosi con i superiori, decise di por fine alla tradizione. I devoti non la presero bene, ma il pulpito, a quel tempo, non ammetteva discussioni di sorta. Il ricordo restò sotto traccia.
Ogni tanto riaffiorava, almeno nelle istanze di chi aveva titolo a organizzare l’evento del venerdì santo. I componenti la “Società americana”, per esempio, un sodalizio avviato il 2 febbraio 1913 dal parroco Giacomo Regensburger da Predazzo (1864-1948), destinato a sostenere tutti coloro che erano emigrati negli Stati Uniti (Pennsylvania, Ohio, Colorado, Wyoming) fra il 1880 e il 1910. Una “società di mutuo soccorso”, per dare assistenza agli emigrati “che erano andati di là dal mare” e ai loro familiari. Oltre al compito di portare la statua di S. Giuseppe nella processione del 19 marzo, avevano il “privilegio” di portare la pesante croce nel corteo del venerdì santo per le vie dell’abitato. Un onore, disputato fra i soci con fior di bigliettoni, come accadeva e succede la terza domenica di luglio a Cloz dove tornano i pronipoti degli emigrati negli Stati Uniti e in Canada per issare sulle spalle il baldacchino con la statua della “Madonna dei mericàni”.
Fino alla soppressione degli anni Trenta, il venerdì santo sfilavano per Storo sette (ma anche dieci) tronchi portati con fierezza e battuti come tamburi. Scrisse Aldo Gorfer (1980) che “il coro ritmato delle bóre era un dissonante epodo di diverse tonalità, cupo, penetrante, enorme. Le bóre, rette orizzontalmente dai ragazzi, si ponevano ai lati della processione, la scortavano. Il clamore assumeva la vibrazione di una batteria di tamburi. Riempiva il borgo. Levava la pelle dall’emozione”.
C’erano i confratelli “vestiti di rosso ciclamino come i vescovi”. Il corteo sostava alle sette fontane della borgata per dire le orazioni e ammirare i quadri della via Crucis. Lungo le strette vie del centro, sui davanzali e ai bracci delle croci, ardevano centinaia di lumini ricavati dai gusci delle lumache (gli “omàc”) riempiti con olio di noce e uno stoppino. Superata l’erta gradinata della chiesa, le “bòre” erano allineate sul sagrato per l’ultimo, lugubre, battito ritmato che incupiva la notte e si spandeva tra il borgo.
Ad ogni buon conto, la processione delle bòre restò archiviata per oltre sessant’anni. Fu recuperata nel 2003. Non più sette tronchi ma soltanto due, sufficienti a riannodare i fili spezzati di un prezioso tappeto. La pausa forzata dei due anni di pandemia ha alimentato la volontà di ripresa. La sera di venerdì 15 aprile 2022, a Storo, circa trecento si sono radunati in corteo, accompagnati dal parroco, Andrea Fava, dal coro della parrocchiale di San Floriano, dai ragazzi dell’oratorio. Rievocato il Calvario al tempo della dominazione romana della Palestina; si sono raccolte offerte per il popolo devastato dall’invasione di Putin.
E mentre i missili seguitano a scarnificare la terra martoriata dell’Ucraina, i raggi della luna di Kiev attraversano “senza passaporto” i paesi d’Europa. Come a Storo, nella notte del plenilunio di primavera.
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