Ha compiuto 63 anni in un carcere degli Stati Uniti, nel Dade correctional Institution di Florida City dove è detenuto da 22 anni. Condannato all’ergastolo per la morte (1998) di un quarantaduenne spagnolo, Dale Pike, ucciso da qualcuno rimasto sconosciuto. Secondo l’accusa, Chico Forti sarebbe stato complice di un complotto che aveva pianificato l’eliminazione della vittima. Da qui la condanna al carcere a vita senza alcuna possibilità di liberazione anticipata. Naufragati i tentativi di revisione del processo, da un paio d’anni sono in corso le iniziative per ottenere almeno il trasferimento in un carcere italiano. Più volte la scaletta di un aereo pareva pronta ad accoglierlo, ma ogni volta l’illusione è rimasta a mezz’aria. La mamma di Chico, ha potuto vedere suo figlio 14 anni fa, quando, a 80 anni, lo ha abbracciato nella prigione della Florida dove è detenuto. A 94 anni, Maria tiene ancora accesa la fiammella della speranza che diventa sempre più fioca, ogni giorno che passa. L’attesa è snervante: per chi lo aspetta di qua dall’Atlantico, ma soprattutto per lui, in balia delle onde come su una tavola da surf che solo la rabbia e l’orgoglio riescono a trattenere dall’andare a picco.
Sui media di qui la vicenda giudiziaria tiene banco fin dall’esordio. Merito soprattutto di uno zio paterno di Chico, Giovanni Forti, oggi 79 anni, il quale ha bussato a mille porte. Ha interessato parlamentari e ministri della Repubblica italiana, ha sollecitato i cronisti a tener desta l’attenzione su quel nipote, amato come un figlio, “sepolto vivo” in una prigione negli Usa. Soprattutto: ha dilapidato una fortuna in avvocati americani nel tentativo di arrivare a una revisione del processo. Per ben sei volte in vent’anni, la famiglia e gli amici hanno cercato di far riaprire il “caso Forti” da una corte di appello. Tutte le richieste sono state respinte. Fine pena, mai.
Così si sta prolungando, col dubbio che sotto ci sia un accanimento giudiziario, la pratica di trasferimento in un carcere italiano del detenuto a Miami. Il ministro degli esteri, Luigi di Maio, a dicembre del 2020 aveva annunciato trionfante: “Chico Forti sarà in Italia in tempi brevi”. Il governatore della Florida, disse, aveva dato il proprio assenso al trasferimento. Sono passati 14 mesi e Chicco Forti, nato a Trento l’8 febbraio 1959, continua a restare dietro le sbarre di un carcere tra le paludi della Florida.
Qualche mese fa si era interessata pure la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, competente per il trasferimento in Italia. Ne aveva parlato a Washington con il suo omologo. Questione di carte, dissero dal ministero. Fossero carte da gioco, Gianni Forti saprebbe trovare il Jolly. Sono le motivazioni della sentenza di “ergastolo senza appello” che mancano. Carte che la corte della Florida, ammesso che lo voglia fare, fatica ad inviare a Washington.
Il fatto è che il “caso Forti” si è arenato negli ingranaggi dell’amministrazione degli Stati Uniti. Quando di Maio annunciò l’imminente trasferimento in Italia, alla casa Bianca sedeva Trump. Pochi giorni dopo, la presidenza è passata al democratico Biden. Nel frattempo è dilagata la pandemia, con il Covid che ha bloccato pure le visite nel carcere dove Chico Forti è detenuto. L’invasione dell’Ucraina e gli scenari internazionali hanno fatto scivolare in fondo all’agenda, se mai è stato preso in seria considerazione dagli americani, il trasferimento del detenuto in Italia. “Un italiano innocente, condannato all’ergastolo in Florida, USA” recita la quarta di copertina di una pubblicazione che ha per titolo “Una dannata commedia – l’autodifesa di Chico Forti” (Fabio Galas, editore, Arco).
Il sommario: “Enrico “Chico” Forti, dopo un processo durato ventuno giorni, il 15 giugno 2000 è stato ritenuto colpevole di omicidio di primo grado a scopo di lucro da una giuria popolare della Dade County di Miami. La sentenza ha lasciato esterrefatti quanti avevano seguito il dibattimento processuale, increduli che una giuria abbia potuto emettere, “oltre ogni ragionevole dubbio” un verdetto di colpevolezza sulla base di così flebili e confuse prove circostanziali. Una condanna decisa in largo anticipo e ottenuta attraverso una serie incredibile di brogli e manomissioni. Dalla valutazione meticolosa di tutte le accuse e delle carte processuali emerge un’altra sconcertante verità”.
Del “caso Forti” si sono occupati la Rai, più volte Mediaset con la trasmissione “Le Iene” e l’americana CBS. Ha scritto “Il Messaggero” di Roma (20 novembre 2018): “Tra i giurati, che si sono espressi all’unanimità, c’era anche Veronica Lee, all’epoca giovanissima, che tempo fa ha scritto al giornalista de Le Iene Gaston Zama un messaggio che mette in serio dubbio la regolarità della condanna”.“L’intero processo è stato una c*****a, e molte informazioni in quell’aula di tribunale sono state nascoste”, ha spiegato la donna. “Ricordo di essere stata bullizzata dagli altri giurati perché credevo che ci fosse un ragionevole dubbio sull’innocenza di Chico”. Quest’ultimo continua a gridare dal carcere la propria innocenza: “Non sto chiedendo misericordia o un atto di pietà, sto chiedendo giustizia. Questo è quello che mi tiene in vita perché i 20 anni che mi hanno rubato non li posso riavere”.
Se è scontata la proclamazione dell’avvocato (“Forti è innocente”), meno certa è l’efficacia della petizione al Governatore della Florida, sottoscritta da migliaia di amici, conoscenti e sconosciuti italiani, che chiede tempi rapidi per il trasferimento in Italia del detenuto trentino. Che poi non vuol dire libertà dal carcere. La convenzione di Strasburgo del 1983, alla quale si sono aggrappati i familiari di Chico Forti, permette a uno straniero detenuto di scontare la pena nel Paese d’origine. Benché sottoscritta anche dagli Stati Uniti (1985), l’intesa fatica ad essere applicata in direzione USA-Italia. In senso opposto, invece, ha funzionato benissimo con i piloti americani del “Predatore” che, a Cavalese, il 3 febbraio 1998 tranciò il cavo portante della funivia del Cermis (20 morti). Gli indagati per strage furono sfilati dalle mani della giustizia italiana e trasferiti in North Carolina dove furono giudicati da una Corte marziale. Se la cavarono a buon mercato: 6 mesi per “ostruzione della Giustizia”. Uno dei due aveva sfilato dal velivolo la videocassetta che documentava il volo a bassa quota. L’altro, radiato dal corpo dei Marines, qualche tempo fa è tornato alla carica chiedendo almeno gli fosse riconosciuta la pensione.
A questo punto, l’unica concreta speranza per Chico Forti è riposta in un possibile scambio di prigionieri. In Italia sono stati condannati e sono detenuti Finnegan Lee Elder e Gabriel Natale Hjorth, due giovani di San Francisco autori dell’omicidio (luglio 2019) del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega. In primo grado (7 maggio 2021) furono condannati alla pena dell’ergastolo. Nel marzo 2022, la corte d‘assise d’appello di Roma ha ridotto loro la pena rispettivamente a 24 e 22 anni di carcere.
Ecco, potrebbe essere questo lo scambio “sul ponte delle spie”, per ottenere il trasferimento di Chico Forti in Italia. Diversamente, temono gli amici, più che nelle paludi della Florida l’ergastolano trentino rischia di restare impantanato nelle more della politica: italiana e americana. Dove le promesse si sprecano e gli alligatori abbondano.
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