Nonostante l’alto numero di iscritti all’ordine dei Giornalisti del Trentino-Alto Adige siamo rimasti in pochi con almeno 50 anni di professione. Per la cronaca: 76 su 1.859. Facendo parte, per fortunate coincidenze e per età, di questa ristretta cerchia, proviamo a rendere pubblico ciò che, di solito, riserviamo alle geremiadi tra di noi. L’altro giorno si è tenuta l’assemblea annuale degli iscritti all’Ordine. Assemblea poco più che “condominiale” vista la partecipazione, via Zoom, di appena 33 iscritti. I quali hanno approvato il bilancio, svolto qualche riflessione e diramato un documento.
Un tempo chi viveva della penna e del microfono, chi cercava di informarsi per informare, chi dava le notizie dopo aver confrontato fonti diverse, chi faceva il “cane da guardia del potere” e cioè aveva per padrone soltanto il lettore, si diceva facesse il mestiere del giornalista. Cinquant’anni dopo l’istituzione dell’Ordine regionale dei giornalisti del Trentino-Alto Adige (1972) e del Sindacato Regionale dei Giornalisti, emanazione della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, molti degli iscritti all’Ordine professionale fanno un altro mestiere: il disoccupato o il sottopagato. E se un giornalista va in pensione si è soliti dire che è “insostituibile” e “impagabile”, cioè non verrà sostituito e, se continuerà a scrivere, non sarà pagato.
È finito da anni il tempo dei privilegi: buon stipendio, ruolo sociale, pensioni più che dignitose. Ma sì, certo, per celia dicevamo tra noi: “Non dite a mia madre che faccio il giornalista, lei pensa che faccia il pianista in un bordello”. Però, sotto sotto, eravamo orgogliosi di una professione che raccontava un Paese e cercava di farlo al meglio. Tutto è crollato con gli anni di “mani pulite”. Illustri colleghi hanno raccontato “la casta” e noi, che compiacenti e compiaciuti di quella casta facevamo parte, siamo stati espulsi. Per rotolare in fondo alla classifica delle professioni e della credibilità presso i lettori. Tant’è che da sei milioni di copie vendute, in vent’anni i giornali quotidiani sono crollati a un milione e 200 mila copie giornaliere. A noi che per mestiere facciamo le pulci a chi occupa i Palazzi, a chi i palazzi li costruisce, a chi i Palazzi li vorrebbe rottamare, non si fanno sconti.
Qualche anno fa, Luisa Piroddi, che di mestiere fa la psicologa, pertanto “accomunata dagli interessi per gli affari del prossimo”, ha pubblicato un pezzo in difesa dei giornalisti (Fuoritestata.it). Scriveva: “Sono di parte, io amo i giornalisti. Ho avuto un fidanzato giornalista, amici giornalisti e tuttora trovo siano le persone più piacevoli da frequentare, perché sono spesso dotate di grande curiosità per gli altri, fanno un lavoro che li spinge a conoscere sempre cose nuove e hanno in serbo un’infinità di storie segrete e interessanti che non finiscono sui giornali e ravvivano le serate di chi ha la fortuna di averli attorno. A giudicare però dal clima generale che circonda questa categoria professionale penso di essere una delle poche a pensarla così. Basta anche solo una veloce occhiata alle centinaia di aforismi che sono stati dedicati ai giornalisti nel corso dei secoli per vederli per lo più dipinti come individui senza scrupoli, bugiardi e collusi con il potere, più orientati al proprio successo personale che alla verità. […] Una tendenza all’egocentrismo e alla smisurata fiducia in se stessi che, secondo una ricerca dell’Università di Oxford, ha fatto meritare ai giornalisti il sesto posto nella top ten dei mestieri che attirano persone con disturbi della personalità”.
Sarà per questo che i giornalisti che fanno domande e pretendono risposte sono mal sopportati? Scriveva Nadia Redoglia (articolo21) 14 febbraio 2017: “Siamo stati ammazzati e/o rapiti nei teatri di guerra e di pace, siamo vittime di mafia/bullismo querelante/ sfruttati e sottopagati/vessati […] In principio fu l’uomo di Arcore che mimò l’atto di fucilare una nostra collega: ottima performance dato che a fianco ghignava l’amico Putin”. Colui il quale da un mese fa la guerra agli ucraini e fa condannare a 15 anni di carcere quei giornalisti che osano parlare di “guerra”.
Erano gli anni di semina del qualunquismo dilagante, dell’uno-uguale-a-uno e dell’ignoranza elevata a dignità di elezione. Anni che hanno avvelenato il Belpaese. Sarà banale ricordalo, ma i media, nel bene e nel male, sono lo specchio di una comunità. Scriveva (2 dicembre 1994) l’indimenticato Gianni Mura (1945-2020): “Siamo diventati poco credibili perché spesso il rigore invocato nei fondi e nei corsivi non compare nella fattura del giornale, nella selezione tra cose da evidenziare e cose da buttare nel cestino, perché la formula del contenitore dove c’è la barzelletta e poi il malato di Aids e poi lo stacco pubblicitario e poi la pinup e poi il senegalese picchiato e poi lo scrittore di turno col suo libro fresco di stampa sotto il braccio è un disastro in tv ma è anche peggio in un quotidiano. Siamo diventati poco credibili perché ripetitivi: ai riti di un Palazzo si sostituiscono i riti di un altro Palazzo, cambiano i nomi dei personaggi e dei locali notturni. Ma non si può nobilitare il pettegolezzo chiamandolo gossip. […] Mi rendo conto che un quotidiano credibile e più vicino alla vita vera sarebbe anche un po’ noioso, ma è solo questione di mixaggio. Gli spazi fra il necessario e il superfluo pendono sempre più verso il superfluo. SI RINUNCIA, spesso, a dire meglio per dire più forte. In questo senso il berlusconismo ha fatto danni che si potranno calcolare solo fra qualche anno”.
Ce ne stiamo accorgendo, e non da oggi, un giorno sì e l’altro pure. Paradossalmente, proprio negli anni del tracollo, gli iscritti all’ordine professionale sono aumentati in maniera esponenziale. Come ha ricordato Mauro Lando, cronista di lungo corso, cinquant’anni fa i giornalisti del Trentino-Alto Adige erano 359 (di cui: 109 professionisti, 189 pubblicisti, 13 praticanti, 45 iscritti all’elenco speciale e 3 giornalisti stranieri). Le colleghe si contavano sulle dita di una mano. Oggi sono 565, di cui 250 professioniste e 315 pubbliciste, vale dire un terzo degli iscritti all’ordine professionale che al 1° gennaio 2022 erano 1.859 (di questi: 697 professionisti, 1.017 pubblicisti e poi gli iscritti all’elenco stranieri e gli iscritti all’elenco speciale).
Altro paradosso: nel 1972 in Trentino c’erano tre quotidiani (Adige, Alto Adige edizione di Trento, il Gazzettino di Venezia-edizione di Trento), il settimanale “Vita Trentina”, la succursale di Bolzano della Rai; in provincia di Bolzano: il Dolomiten, l’Alto Adige, l’edizione di Bolzano dell’Adige e l’edizione altoatesina del Giorno di Milano), il settimanale “il Segno”, la sede della Rai (italiana e tedesca).
Oggi in provincia di Trento restano: l’Adige, l’edizione regionale del Corriere della Sera. Il Trentino è stato chiuso dall’editore Ebner il 15 gennaio dello scorso anno. Editore che, nonostante la cesoia, resta proprietario dell’80% della carta stampata in regione. Se a Bolzano controlla il giornale “Alto Adige”, il “Dolomiten”, la casa editrice Athesia, varie emittenti radiofoniche, a Trento è proprietario dell’Adige, di Radio Dolomiti, della casa editrice Curcu&Genovese, della società di raccolta pubblicitaria Publialpi.
I due giornali di lingua italiana (Adige e Alto Adige) hanno un unico direttore: Alberto Faustini. Un giornalista di grande versatilità, il quale passa con nonchalance dalla direzione dei due giornali ai microfoni e alle telecamere della RAI, dalla presentazione di libri alla moderazione di dibattiti. A lungo capoufficio stampa della Provincia autonoma di Trento, conosce bene il Palazzo tanto che gli stessi colleghi lo preconizzano autorevole candidato dapprima per il Senato (si vota nella primavera del 2023) per trasmigrare poi, alla testa di una coalizione, candidato governatore della Provincia. Lui naturalmente smentisce con la spiegazione che il mestiere della sua vita è quello del giornalista. Ma altri colleghi, in anni passati, si sono lasciati ammaliare dalla Sirena della politica. È la tentazione di coloro ai quali stanno stretti i panni del testimone e trovano più gratificante il pigiama del protagonista.
Se ne è parlato l’altro giorno nel corso dell’assemblea annuale degli iscritti all’Ordine. Lo ripetiamo: appena 33 i partecipanti benché agevolati dalla piattaforma Zoom. Segno di una disaffezione verso gli organismi della categoria (Ordine, Consiglio di disciplina, sindacato). E dire che l’autunno scorso, in occasione delle elezioni per il rinnovo del direttivo ordinistico c’era stata una mobilitazione che aveva portato alle urne ben 442 colleghi/e (268 professionisti, 174 pubblicisti). Complice, in questo, una polarizzazione del voto con due liste contrapposte che hanno esaltato l’appartenenza di genere e portato nel consiglio dell’Ordine regionale 5 colleghe e 4 colleghi. Stessa proiezione per il consiglio territoriale di disciplina: 5 giornaliste e 4 giornalisti. Per la prima volta nei cinquant’anni dell’Ordine regionale del Trentino-Alto Adige una donna è stata eletta presidente(ssa), caso più unico che raro anche a livello nazionale. Inoltre, Lissi Mair, la collega che presiede il consiglio dell’Ordine, è di madrelingua tedesca (è nata in Austria), vive a Bolzano ed ha fatto parte, in precedenza, del consiglio territoriale di disciplina.
In conclusione della disertata assemblea del 25 marzo è stato diffuso un documento che, a nome dell’intera platea degli iscritti all’Ordine, leva alto un grido di dolore per un lavoro “dis-prezzato”, per la fragilità del pluralismo informativo e, sul piano locale, per la concentrazione delle testate in pugno a un unico editore.
Chi spera (e tra questi molti giornalisti disoccupati) nell’iniziativa di Confindustria Trento e della Federazione Trentina delle Cooperative, per il varo (annunciato) di un nuovo quotidiano, dovrà aspettare l’autunno. I tempi si sono allungati nel tentativo, dicono i promotori, di allargare la base sociale. Resta da capire quali margini di manovra avrà il direttore del nuovo giornale vista l’ampia platea di “comproprietari”, portatori ciascuno di interessi particolari. Chi vivrà, vedrà.
Piaccia o no, questo mestiere, oggi mal pagato e mal sopportato, resta una garanzia di libertà e di contrasto alle false o deformate informazioni, soprattutto veicolate sul web. Nell’articolo, già citato, la psicologa Luisa Piroddi concludeva: “In tempi di citizen journalism in cui sembra che chiunque possa mettersi a fare questo mestiere scrivendo in rete e scattando foto col cellulare, è questo che in fondo il lettore chiede a chi guarda al mondo per lui: tempo per indagare, buon senso per discernere, intelligenza per interpretare. Amiamo i giornalisti, purché non temano di dirci la verità e non abbiano alcuna voglia di farci andare a letto tranquilli”.
In queste sere di primavera, tranquilli proprio no. Peraltro, l’invasione russa dell’Ucraina ha acceso i riflettori su una professione, quella degli “inviati di guerra”, la maggior parte giornaliste e giornalisti free-lance (senza contratto e senza la copertura di importanti testate di giornali o Tv). Colleghe e colleghi che stanno riscattando con grande onore una professione indispensabile. Oggi più di ieri. Perché il/la giornalista resta, talvolta, l’unica lampadina a rischiarare il buio: della guerra e del malaffare. E scusate se è poco.
1 commento
Ottimo quadro Alberto, sotto il profilo storico e deontologico. Te lo dice un collega che ha avuto la fortuna di vivere la professione nel periodo in cui fare il giornalista era dignitoso e remunerato . E anche uno dei tre traghettatori con Gianni Faustini e Bruno Cagol dei faldoni dell’Ordine da Venezia a Trento per aprire la sede presso il circolo Rosmini. Mezzo secolo fa.
E infine uno che anche in Parlamento è rimasto giornalista perché aiuta ad essere utili, accanto a molti ai quali basta essere eletti.
Ciao
Tieni duro.