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    Storia&Storie

    Ludwig: col ferro e col fuoco

    Carlo MartinelliBy Carlo Martinelli19 Luglio 2021Aggiornato:20 Luglio 2021Nessun commento6 Minuti di lettura
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    C’è un detenuto trentino nelle carceri americane che aspetta da più di vent’anni di essere almeno trasferito in Italia. Si chiama Chicco Forti, ha 62 anni, sta scontando una condanna all’ergastolo non già per aver ucciso un uomo ma per aver detto una bugia. In un primo tempo raccontò alla polizia di Miami, in Florida, che non aveva incontrato il giovanotto poi trovato cadavere su una spiaggia. Ma un video dell’aeroporto, che mostrava Chicco Forti mentre stringeva la mano alla vittima, aveva smentito il diniego. Una vicenda giudiziaria poco chiara, con molti dubbi e il sospetto di un trabocchetto della polizia di Miami, ha infilato Chicco Forti nel tunnel dell’ergastolo. Condanna a vita. Poco prima di Natale del 2020 il ministro degli esteri italiano, Di Maio, aveva annunciato che Chicco Forti sarebbe stato estradato in Italia. Sono passati otto mesi. Da oltre Atlantico ancora nessuna notizia.Nel Belpaese, invece, c’è chi, sospettato di 27 omicidi (con almeno dieci vittime accertate), sia in libertà ormai da anni. Si tratta di due serial killer che firmavano i loro misfatti con caratteri runici e la scritta “Ludwig”. Uccidevano col ferro e col fuoco. I vecchi cronisti ne rammentano ancora i delitti, uno dei quali, efferato e violento, si verificò a Trento nell’inverno del 1983. Lo rievoca un giovane “apprendista stregone” dell’epoca, il giornalista e scrittore Carlo Martinelli.

    Ho incontrato Ludwig il 26 febbraio 1983, sabato. Sono quasi le venti, piovvigina, fa freddo. Da pochi mesi sono giornalista praticante all’allora Alto Adige, redazione di Trento. Mi tocca il turno di sera con giro telefonico per controllare se ci sono novità di cronaca. Nera, in particolare. Al pronto soccorso dell’ospedale Santa Chiara mi dicono che l’ambulanza ha portato un sacerdote ferito alla testa da dei balordi. No, non è morto. È grave, lo hanno colpito con un chiodo. 

    LA borsa di don Bison, il martello e il punteruolo conficcato in testa al religioso – La rivendicazione di un omicidio della banda Ludwig a Monte Berico di Vicenza nel 1980

    Con un chiodo? Il capocronista scruta il giovane praticante. E da quando si fanno aggressioni con un chiodo? Vai a dare una occhiata. Dov’è? Via dei Giardini a pochi metri dall’istituto dei Padri Venturini, dalle parti dell’ex ospedalino. Chiama il fotografo. Ma il fotografo non lo trovo. Allora prendi la piccola macchina fotografica in dotazione per le emergenze, casomai scatta qualche foto con quella. 

    Arrivo trafelato. Due pantere delle Polizia sbarrano il passaggio. Ci sono le luci azzurre dei lampeggianti, l’asfalto è bagnato. Mi fanno passare, quel cronista (sarà l’unico sul posto, per tutta la sera) che sembra assolutamente fuori posto intenerisce il poliziotto. “Veloce, una occhiata veloce e poi via”. 

    A terra, una borsa nera, un martello e un chiodo lungo, esageratamente lungo. Non credo a quel che sento: quella è la borsa del prete, gli è caduta. Lo hanno buttato a terra e poi mentre uno lo teneva fermo l’altro con il martello gli ha conficcato il chiodo in testa. Più che un chiodo, uno scalpello e in cima avevano attaccato una croce in legno. 

    Guardo. Il fotografo non arriva, non arriverà proprio. Non ho scelta. Scatto una, due, tre foto. Lì vicino altre borse, di plastica, di quelle che si prendono in negozio: servite a trasportare proprio martello e scalpello. C’è poco altro da scoprire. Salvo la frase che un poliziotto bisbiglia ad un altro: è come a Vicenza. Torno in redazione. C’è il nome del sacerdote, padre Armando Bison. Per le ferite riportate morirà pochi giorni dopo, a Verona. Devo scrivere il pezzo, la notizia andrà in prima pagina, bisogna fare in fretta. Però una telefonata ai colleghi del Giornale di Vicenza la voglio fare, prima. 

    Per capirci: nel 1983 non c’è Google, non ci sono i telefonini, si lavora a memoria e con gli articoli ritagliati. Ma a Vicenza basta dire che c’è un prete colpito e loro ti dicono: come al santuario del monte Berico, il 20 luglio del 1982. Due religiosi uccisi a mazzate, un bestiale duplice delitto rivendicato tre giorni dopo. Da chi, chiedo? Da Ludwig. Un messaggio in caratteri runici, l’indicazione di una prova certa e: “Il fine della nostra vita è la morte di coloro che tradiscono il vero Dio. Gott mit uns”. 

    A Trento avremo aspettato due giorni. Il 28 febbraio 1983 all’Ansa di Milano arriva una lettera imbucata a Padova. C’è il lugubre simbolo dell’aquila con la svastica e c’è un testo breve, brevissimo: “Il potere di Ludwig non ha limiti. Il crocifisso porta la scritta Faba”. Il crocifisso incollato in cima allo scalpello usato per uccidere padre Bison portava effettivamente quella scritta. Solo gli assassini potevano saperlo. 

    Il giorno dopo la foto della borsa, del martello e dello scalpello è in prima pagina sul giornale. Poi, negli anni la ritroverò, quell’immagine scattata quasi per caso – e che ovviamente non ha mai portato alcuna firma – persino su una enciclopedia dedicata ai serial killer, pubblicata negli Stati Uniti. 

    Ma ritroverò, tragicamente, anche Ludwig. In otto anni Wolfgang Abel e Marco Furlan, i figli della Verona bene, hanno ucciso – e per questo sono stati condannati e oggi sono liberi – 27 volte. Quando bruciano un cinema a luci rosse, a Milano, il 14 maggio di quello stesso, fanno sei vittime. Tra loro un docente universitario di origine trentine, Giorgio Fronza. Nel gennaio del 1984 bruciano una discoteca a Monaco di Baviera. Le fiamme uccidono una cameriera di nazionalità tedesca. Si chiama Corinna Tartarotti, i suoi erano trentini. 

    E a Trento Marco Furlan, la metà di Ludwig, tornerà ancora. In manette, per essere visitato da uno psichiatra, all’ospedale. La folle avventura di morte e punizione contro “peccatori” e “diversi” era finita il 4 marzo del 1984, ancora in una discoteca, dalle parti di Mantova. Volevano bruciarla. Ci fossero riusciti, avrebbero ucciso centinaia di ragazze e ragazzi. Invece, il computo dei morti loro attribuiti si fermò a 27. Uno, in via dei Giardini, a Trento, una sera di pioggia, sabato…PS: il perché il fotografo del giornale – quella sera il grande, indimenticabile Dino Panato – non fosse reperibile e perché quella foto made in Alto Adige due giorni dopo finisse su tutti i quotidiani italiani, appartiene a quelle storie incredibili che fanno parte della “vita” dei giornali. Verrebbe da dire: facevano parte, ma le certezze vanno bandite e i dubbi vanno alimentati, sempre.

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    Carlo Martinelli

    Carlo Martinelli è nato a Trento, nel 1957. Giornalista, scrittore, ex libraio, devoto alla carta. E’ autore di “Storie di pallone e bicicletta“, “Un orso sbrana Baricco”, "Campo per destinazione", "Un partigiano insulta Depero", "Antialmanacco del calcio". Per vent’anni ha lavorato all’”Alto Adige”, in particolare nell'edizione trentina, sulla quale ha scritto ininterrottamente dal 30 marzo 1980 al 15 gennaio 2021. Dal 3 novembre 2022 è editorialista e collaboratore delle pagine culturali de "Il T, quotidiano autonomo del Trentino Alto Adige Sudtirol". Scrive anche per "Salto.bz" e per "Il quotidiano del Sud". E’ stato per cinque anni responsabile de “Il Trentino” e di “Poster Trentino”, riviste della Provincia autonoma di Trento. Raccoglie scritti, recensioni e storie nel suo blog "PIOVE", piattaforma Substack.

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