Marco Porcio Catone (234-149 a. C.), conosciuto come Catone “il censore”, a conclusione di ogni suo intervento in Senato, a Roma, pronunciava la frase “Carthago delenda est” (Cartagine deve essere distrutta). Erano l’auspicio e la convinzione he la città sulla costa africana (poco lontano dall’attuale Tunisi) dovesse essere rasa al suolo per chiudere in tal modo la contesa del Mediterraneo che avrebbe portato alla terza guerra punica (149-146 a. C.) tra Cartagine e Roma. È ciò che sta accadendo oggi a Gaza e nel braccio di ferro (?) tra gli Stati Uniti di Trump e la Russia di Putin.
Da quando Donald Trump è stato rieletto Presidente degli Stati Uniti, una parte delle nostre attenzioni si è concentrata su di lui, sulla sua imprevedibilità e sulle sue scelte. Molti di noi si sono interrogati per cercare di capire, al di là delle gigionerie del personaggio, cosa abbia spinto l’America a riaffidarsi all’inaffidabile Donald.
Qualche vaga reminiscenza scolastica potrebbe aiutarci. Dopo la terza guerra punica, Roma sprofonda in una crisi sociale ed economica diffusa. Cartagine, la grande nemica, è stata annientata e ciò ha reso Roma l’unica superpotenza mondiale e la più straordinaria talassocrazia mai conosciuta. Le flotte romane controllano tutte le principali rotte commerciali e quindi governano di fatto l’andamento delle principali economie delle regioni conosciute del globo.
Le similitudini con il presente balzano all’occhio. Dopo la caduta dell’arcinemico sovietico e la costante crescita delle flotte americane, composte da oltre trecento navi da guerra, quest’ultime controllano adesso tutti i mari e, con essi, le principali rotte mondiali. Si tratta anche oggi quindi di una talassocrazia, in grado di incidere sui mercati, al punto da costringere la Cina a inventare nuove rotte terrestri, come la “Via della Seta”, per non sottostare alla supremazia navale statunitense.
Gli accadimenti contemporanei richiamano alla mente il controllo romano del Mediterraneo, che consente una prima forma di globalizzazione, nella quale Roma diventa il fulcro dell’economia e dello scambio commerciale planetario. Eppure il “Civis Romanus” lamenta crescenti condizioni economiche singole e familiari sfavorevoli che portano ad un progressivo impoverimento generale. Al contempo egli, che spesso è un veterano di tante battaglie delle legioni ed è deluso dal mancato riconoscimento in patria del suo valore e del suo impegno, si è convinto che la “pax romana” porta benefici quasi esclusivamente alle popolazioni delle province mediterranee, anziché a lui ed al suo mondo. In questo clima di disagio e rancore, emergono le figure di due “Tribuni della Plebe”, i fratelli Gracchi: Tiberio e Gaio, che si pongono alla guida di questo malessere sociale, promuovendo una riforma agraria capace di porre al centro dello sviluppo della repubblica il “Civis Romanus” che adesso vive la frustrazione della sua emarginazione; il commerciante dell’Urbe soffocato da concorrenze che si amplificano a dismisura e il probo cittadino che mal sopporta la straripante presenza di “altri” a Roma, cioè di gente che giunge in città e vi si insedia, provenendo dalle terre sottomesse dalla potenza romana.
Tiberio Gracco così descrive la situazione in un suo celebre discorso: “I Romani si definiscono padroni del mondo, ma non possono dire di essere padroni di una sola zolla di terra” (“Vite parallele” – Plutarco – Ed. Einaudi 1988). Questo disagio porta a un bivio ineluttabile: proseguire nelle politiche di conquista, con tutto ciò che questo comporta, oppure puntare a consolidare il mantenimento dello “status quo”?
Sono somiglianze che richiamano la vicenda attuale. Infatti la “middle class” americana denuncia, da tempo, la sua inquietudine per quello che la globalizzazione, voluta peraltro dagli stessi USA, ha prodotto, ovvero un impoverimento della famiglia media e l’avvento di nuovi “americani”, rappresentati in prevalenza dalle popolazioni di radice ispanica, che stanno conquistando sempre nuovi spazi vitali nel contesto generale. Inoltre, con la caduta del Muro di Berlino – come fu per Roma con Cartagine – gli USA si ritrovano improvvisamente senza “nemico” ed in una posizione egemonica e spingono, come già ricordato, verso la globalizzazione dei mercati, quale diretto risultato della loro talassocrazia, sulla quale fa perno ogni giorno di più, l’intero sistema internazionale. Questo nuovo scenario della grandezza americana genera però anche inattesi contraccolpi economici interni che ricadono proprio su quelle classi medie costituenti, a ben vedere, l’ossatura degli “States”. Sono costoro che chiedono alla politica del loro Paese, come già fecero i romani, un nuovo riequilibrio economico, invocando al contempo la rinuncia a qualsiasi intervento militare nei teatri internazionali e tentando, in ogni modo, di frenare l’ascesa delle componenti “latinos” che si stanno avviando ad impossessarsi di quote sempre più rilevanti di potere, come testimonia anche parte dell’attuale classe dirigente trumpiana.
“The Donald” interpreta queste tensioni e se ne fa carico, magari solo in chiave elettorale, ma dando comunque l’impressione di voler riportare l’americano medio, bianco e anglosassone al centro dello sviluppo. Sostiene quindi il disimpegno militare un po’ ovunque e perfino nel contesto della N.A.T.O.; promuove politiche razziste di espulsione dell’immigrazione latino-americana clandestina e persegue politiche pattizie, tipiche delle culture commerciali, volte ad isolare soprattutto la Cina – la Cartagine del futuro – che rappresenta il vero pericolo per il domani americano.
Nascono da queste ragioni, ad esempio, le politiche dei dazi, imposti ed accettati da partner riluttanti ma impossibilitati a fare altrimenti; gli affanni dell’“agreement” ad ogni costo nella riduzione della politica a mero negozio commerciale e l’inseguimento di una grandezza statunitense – “Make America Great Again” M.A.G.A. – che, peraltro, non è mai venuta meno, soprattutto dopo il crollo dell’antagonismo sovietico. Queste opzioni portano a un progressivo isolamento, non nuovo nella storia diplomatica americana a partire dalla cosiddetta “dottrina Monroe” che, a sua volta, innesca inevitabilmente il protezionismo, in un avvitamento fra esigenze economiche, retoriche patriottarde, promesse irrealizzabili, rieditati razzismi e vanterie propagandistiche.
L’anima profonda degli USA, quella appunto della “middle class” ha affidato a Trump il proprio destino, nell’ingenua certezza che egli possa cambiare il corso della storia, restituendo la serenità perduta ed una fiducia, intaccata proprio da quella globalizzazione che gli USA hanno creato e tutelato con le loro flotte, con le quali dominano tutti i mari.
La Casa Bianca non appare affatto in grado di reggere la distorsione della storia che la vuole immobile “alla finestra” ed interessata solo agli affari propri, che però, in realtà, sono quelli globali e che necessitano di una forte leadership mondiale. Essa, inevitabilmente nel suo affermarsi, riporta a galla proprio quella politica interventista, contro la quale l’americano medio ha scelto Trump e le sue retoriche buffe e inconcludenti. Come avviene a Roma dopo le guerre puniche e l’epoca dei Gracchi – quando cioè il mantenimento della solidità strutturale della superpotenza impone scelte alternative a quelle dell’isolamento e che portano alla ricerca di una sempre nuova Cartagine – così sta accadendo negli USA, dove si cerca il rilancio di un ruolo degno di una superpotenza, com’è ancora quella americana. Su questo scenario, si innesta infine l’acuirsi di crisi internazionali, come quelle ucraine e mediorientali, che stanno contribuendo a una trasformazione dei pesi, delle forze e dei protagonismi, ma anche delle alleanze e del bisogno di un “nemico”, attorno al quale sviluppare nuovi concetti di superpotenza.
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