C’è un passato non rimosso, una mancata “Norimberga” che da più di 80 anni incalza l’Italia. Correva l’anno 1943. Complice della Germania nazista, l’Italia era in guerra da tre anni contro il “mondo libero”. Gli Alleati (americani, inglesi e francesi) erano sbarcati in Sicilia e la figura di Benito Mussolini (1883-1945) cominciava a vacillare tra le masse che per vent’anni lo avevano osannato quale Duce del Fascismo. Nella notte tra sabato e domenica 24-25 luglio 1943 l’organo supremo del regime, il Gran Consiglio del Fascismo, approvò a maggioranza dei votanti (19) un ordine del giorno, proposto da Dino Grandi (1895-1988), con il quale si chiedeva la restituzione del comando delle forze armate al re, Vittorio Emanuele III (1869-1947), e la fine della dittatura. Poche ore dopo, quando Mussolini si presentò davanti al re fu destituito da capo del governo e arrestato. Al suo posto, Vittorio Emanuele III nominò capo del Governo il maresciallo Pietro Badoglio (1871-1956). La situazione era caotica. Le truppe alleate avevano occupato il sud Italia, i tedeschi tutto il nord del Paese diviso dalla cosiddetta “linea Gotica”. Poi venne l’8 settembre, il “giorno della vergogna”. Dopo aver firmato un armistizio con gli alleati, il re e il governo, abbandonata Roma, fuggirono a Pescara. Da lì, a bordo della corvetta “Baionetta” raggiunsero Brindisi, lasciando l’esercito italiano in balia dei tedeschi. I quali, il 12 settembre, liberato Mussolini che era tenuto prigioniero in un albergo a Campo Imperatore, sul Gran Sasso, lo trasferirono in Germania. Qui Hitler lo convinse a formare uno Stato fantoccio, la Repubblica Sociale Italiana (RSI) con sede tra Gargnano e Salò, sul lago di Garda. Occupato militarmente il nord Italia, i nazisti si scatenarono contro l’esercito italiano allo sbando e contro la popolazione civile. Cominciava la resistenza da parte di gruppi di volontari di varia tendenza politica, fino alla liberazione dal nazifascismo del 25-28 aprile 1945.
Un cubo di mattoni e cemento sovrastato dal motto “Patria Onore”, che vagamente richiama l’architettura razionalista, domina un giardino pubblico in un borgo nei pressi di Roma (Affile – 1.500 ab.). Si tratta di un monumento inaugurato, tredici anni or sono, dalla locale Amministrazione comunale e finanziato con 130.000 euro pubblici dalla Regione Lazio, all’epoca presieduta da Francesco Storace.
Quattro anni prima, una famosa rivista patinata maschile, pubblica in copertina la fotografia di un alto ufficiale della Repubblica Sociale Italiana (RSI). Sullo sfondo campeggiano i simboli della X Flottiglia M.A.S., un reparto speciale della regia Marina militare, copertosi di gloria per alcune epiche imprese e parimenti di disonore per essere stato, almeno in parte, protagonista della sanguinaria e feroce repressione antipartigiana, durante l’effimera Repubblica di Salò.
Cosa unisce questi due episodi, solo apparentemente minori? Cosa collega il mausoleo a Rodolfo Graziani (1882-1955), “il più sanguinario assassino del colonialismo italiano” il quale, fra l’altro, fece trucidare oltre duemila monaci, diaconi e pellegrini inermi nel massacro del monastero di Debra Libanos in Etiopia nel maggio del 1937 e la fotografia di Junio Valerio Borghese: il “principe nero” comandante della X MAS, che alcuni ambienti nazisti avrebbero preferito addirittura a Mussolini per guidare lo “Stato fantoccio” della RSI; massacratore di partigiani e civili per “riscattare il tradimento dell’ 8 settembre ‘43”; fondatore nel dopoguerra del Fronte Nazionale di estrema destra e mancato golpista nel dicembre del 1970?
In realtà, si tratta solamente di due episodi, fra altre migliaia, che nel segno della nostalgia neofascista, testimoniano la capacità, tutta italica, di quella rimozione del passato, attraverso la quale gli eredi ideologici di questi personaggi sono oggi alla guida del Paese.
Tutto ciò si è reso possibile, vuoi per un radicamento profondo dell’ideologia fascista nel tessuto sociale e culturale italiano, ma anche per l’assoluta mancanza di un autentico confronto con il fascismo ed il suo portato storico che ha prodotto, a sua volta, l’assenza di una “Norimberga italiana”, con la quale fare i conti del passato. Se, nell’immediato dopoguerra e negli anni seguenti della “guerra fredda”, anche su pressione angloamericana, si è volutamente rinunciato a processare il fascismo in nome della più urgente lotta globale fra capitalismo e comunismo, questa scelta si è poi riverberata sui decenni successivi e, nonostante la caduta del comunismo alla fine degli anni Ottanta del Novecento, ha prodotto un clima politico e sociale, creato anche ad arte, che ha contribuito, in modo sostanziale, ad alimentare quella rimozione ideologica e pratica che segna la nostra vita democratica.
Solo così riesce a Berlusconi, quand’egli decide di “scendere in campo” nei primi anni Novanta, di portare a compimento quell’operazione di sdoganamento del fascismo, già iniziata con la mancata epurazione e l’amnistia generale firmata da Togliatti nel 1946. Il “”cavaliere” ha bisogno dei cosiddetti post-fascisti. Senza di loro nessuna maggioranza parlamentare è possibile e così, il “Berlusca”, che viene dalla contiguità con il socialismo craxiano, accoglie a braccia aperte gli eredi del regime e li inserisce nel suo governo. Si tratta di una opzione di straordinario significato e che apre le porte, non solo ad una progressiva banalizzazione del fascismo, folkloristicamente rappresentata dalle bottiglie di vino con l’effige del duce, ma anche e soprattutto ad un revisionismo storico quotidiano, che affligge questo Paese ed è gravido di conseguenze.
In Italia insomma, a differenza di quanto accade in Germania e Giappone, sono gli Alleati i primi che scelgono di sacrificare la giustizia post-bellica, in nome della lotta al comunismo in una penisola che vanta, a guerra conclusa, il Partito Comunista più organizzato e potente dell’occidente. Ma non solo. L’Italia confina con la Jugoslavia titina, segnata da un’aggressiva forma particolare di comunismo e questi sono i principali motivi iniziali, che impediscono di fare i conti con la storia tragica del “Ventennio”. E così, i processi contro i nostri criminali di guerra – e quindi contro il regime – non si tengono mai; ogni richiesta di estradizione presentata da Paesi come la Jugoslavia, la Grecia e l’Etiopia viene respinta; ogni colpa cancellata, pur di creare una salda barriera anticomunista, facendo affidamento su quegli apparati militari che ancora sono guidati dagli stessi alti ufficiali ricercati per crimini di guerra.
Su questo scenario oscuro e confuso, si innesta poi il ruolo chiave della Chiesa cattolica, anch’essa ossessionata dall’avvento del marxismo mondiale e che favorisce quindi, non solo la fuga dei nazisti e dai fascisti dall’Europa nei primi concitati periodi del dopoguerra, ma anche il passaggio “indolore” dei fascisti all’alleanza occidentale e, con essa, alla democrazia repubblicana. Queste scelte vengono giustificate, seppur a fatica, vantando quel cambio di schieramento, avvenuto dopo l’8 settembre 1943. Gli Alleati decidono che, nonostante gli elenchi di centinaia di presunti criminali di guerra – ben 729 sono infatti schedati dall’ “United Nations War Crimes Commission” – non ci sarà in Italia nessuna Corte militare internazionale e nessun processo di Norimberga o di Tokio.
A questa somma di fattori, si aggiunge poi il concetto di “continuità dello Stato”, ovvero il riconoscimento di un legame istituzionale, rappresentato dalla monarchia, fra il regime di Mussolini e i governi succedutisi dopo il 1943 e fino all’avvento della Repubblica nel 1946. E’ in questo contesto che anche figure altamente compromesse con la dittatura, si ritrovano di nuovo in posizioni apicali dentro il nuovo Stato democratico, come nel paradossale caso di Gaetano Azzariti. Giurista e già presidente di sezione della Corte d’Appello nel 1931; antisemita convinto, è uno degli autori delle “leggi razziali” del ‘38 e poi presidente di sezione del “Tribunale della Razza”. Con il crollo del fascismo, diventa Ministro di Grazia e Giustizia nel primo governo Badoglio e poi, per oltre un anno, collabora con Togliatti e con le “Commissioni parlamentari per la riorganizzazione dello Stato”. Nominato presidente del Tribunale Superiore delle Acque pubbliche, nel 1955 diventa giudice della Corte Costituzionale e infine presidente della stessa nel 1957.
Le istituzioni fondamentali passano insomma dal fascismo al post-fascismo e quindi alla Repubblica democratica, con una rapida chiusura del capitolo delle epurazioni e con la conseguente rimozione di ogni memoria drammatica e tragica. Nasce, nel contempo, il mito degli “italiani, brava gente” ed è proprio per sfatare quel mito che sarebbe servita una “Norimberga italiana”. D’altronde, l’abitudine di non fare i conti con la storia accompagna le vicende italiane dall’unità ai giorni nostri. Cosa dire infatti dei crimini commessi durante la lotta al brigantaggio e nelle fasi di conquista coloniale in Eritrea nel 1885, o ancora i massacri perpetrati dalle nostre truppe in Cina durante la “rivolta dei Boxer” e gli eccidi in Libia nel 1912 e poi con il fascismo che si macchia del genocidio dei Senussi e delle comunità della Cirenaica? E come non ricordare, in Grecia, gli stupri di massa dei nostri soldati sulle donne di Salonicco o l’eccidio del villaggio di Domènikon, così come le decimazioni, le uccisioni arbitrarie e i campi di concentramento e di sterminio voluti da generali come Mario Roatta e Alessandro Pirzio Biroli? Tutto questo e molto altro è finito nella polvere delle dimenticanze e sotto il tappeto delle convenienze politiche, al pari dell’”armadio della vergogna” e dei molti mancati processi a criminali di guerra tedeschi, per paura di un coinvolgimento negli stessi anche degli italiani. In proposito, appaiono illuminanti le parole di Mario Draghi quando, nelle vesti di Presidente del Consiglio dei Ministri il 25 aprile del 2021 dichiara: “Nell’onorare la memoria di chi lottò per la liberazione, dobbiamo anche ricordarci che non fummo tutti, noi italiani, brava gente. Dobbiamo ricordare che non scegliere è immorale. Significa far morire un’altra volta chi mostrò coraggio davanti agli occupanti e ai loro alleati e sacrificò sé stesso per consentirci di vivere in un Paese democratico”.
E’ questo humus – fatto di nebbie, smemoratezze e “perdonismo” ad ogni costo – che ha consentito, non solo il monumento a Graziani o la copertina a Borghese o i raduni col braccio levato di Acca Larentia, ma soprattutto il ricostituirsi, dapprima latente e poi evidente, del neofascismo nella sua declinazione politica e istituzionale, rappresentata dalla nascita di un partito politico, il Movimento Sociale Italiano (MSI) dal quale discendono Alleanza Nazionale prima e Fratelli d’Italia poi, ma anche tutte le versioni più estremistiche e legate al “terrorismo nero” ed alle molte trame eversive ed occulte che attraversano la storia più recente del Paese. Tutta questa galassia composita è unita e protesa anzitutto a dimenticare, cancellare e riabilitare un passato con il quale non si vuole comunque fare i conti.
Il mancato confronto con le nostre responsabilità, ha generato quindi situazioni altrove del tutto inimmaginabili e improponibili, ma che in Italia invece sono apparse quasi scontate e naturali, come l’esibizione del busto del duce nella residenza dell’attuale seconda carica dello Stato. Mentre nel resto d’Europa, i collaborazionisti venivano processati e spesso condannati a morte, qui non successe nulla o quasi, consentendo così a molti gerarchi di riciclarsi e di ripresentarsi sulla scena politica. Dalla camicia nera a quella bianca il passo fu ed è brevissimo, con la conseguente ricostruzione di una verginità politica perduta ed una crescita costante di un consenso che non è solo nostalgico, ma interpreta un certo sentire degli italiani, ancora affascinati dalle versioni edulcorate del fascismo, al punto da favorirne la rinascita attraverso “una comoda, ma delittuosa, cancellazione della storia”, come ci ricorda Vittorio Foa.
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