Nel mese del carnevale riaffiorano antichi riti propiziatori che un tempo accompagnarono la vita dei nostri nonni nelle valli e nelle campagne, non solo del Trentino. Il 2 febbraio, la Candelòra, si recupera il detto: “Dàla Cadelòra da l’inverno sen za fòra, ma èl nùgol, èl serén, per quaranta dì ancor ghe n’avén”. Insomma sarà inverno ancora per quaranta giorni. Cinquanta, a prestar fede al calendario che fissa al 21 marzo l’inizio della primavera. Il giorno seguente, il 3 febbraio, ricorre il patrocinio di S. Biagio, “otorinolaringoiatra” ante litteram, ritenuto protettore nelle affezioni di gola. A S. Biagio di Romallo sono devote le popolazioni della val di Non che il 3 febbraio scendono nella gola della Novella. Pellegrinaggio devozionale a una cappella, con annessa casa di abitazione, che fu romitorio e, prima ancora, lazzaretto per i lebbrosi. Alla ricorrenza di S. Biagio dedica un racconto-ricordo d’infanzia Joseph Tassone, nato in Francia e vissuto per qualche anno in Calabria.
Quando ero ragazzo, neppure troppo tempo fa, Biagio era uno di famiglia. Un vecchio dal vestire un po’ eccentrico che in cambio di qualche piccola attenzione non mancava mai di dare una mano. Maiali, vitelli e gola le sue specialità.
Eccentrici i vestiti, lunga sottana e improponibile cappellone a punta, e più eccentriche ancora le abitudini. Pretendeva, per esempio, che prima di entrare a casa sua a Plaesano (Reggio Calabria) – una chiesa bruttina tutta cemento e scrostature – si facesse per tre volte il giro dell’edificio. Per devozione, diceva lui.
E zio Mimì, vitellino di pochi mesi alla cavezza, li fece quei tre giri, a ringrazio dell’aiuto che Biagio gli aveva dato quando la madre del vitellino pareva proprio non dovercela fare a darlo alla luce. Poco contarono gli sguardi imbarazzati dei figli sul sagrato, i patti erano patti per zio Mimì.
Il fratello, mio nonno Leonardo – fratello di zio Mimì, non del vitello – aveva invece fatto sua la filosofia del prevenire, furbo lui! Alle pareti della stalla Biagio aveva il posto d’onore, un santino tutto tarli e regali di mosche, e a Plaesano ci andava ogni anno, non solo quando ce n’era stato di bisogno. Biagio pareva gradire: il tasso di mortalità alla nascita nella stalla di mio nonno era pari a quello dei Paesi scandinavi (mai sentiti nominare né da mio nonno né dalle sue vacche, credo). Quando si dice la parola d’onore!
Biagio odiava il freddo. Nonostante sui libroni la sua festa cadesse in febbraio, lui si ostinava a ricevere gli ospiti la prima domenica di giugno. Bizzarrie innocue di un vecchio, perché farne questione? Si andava a trovarlo quando preferiva lui, e ci si andava rigorosamente a piedi, un cammino mezzo pellegrinaggio e mezzo rimpatriata. Da casa mia, a Cittanova, erano quattro ore giuste giuste. Alle cinque si partiva e alle nove si era lì. A giugno alle cinque è già quasi giorno, tre preghierine abburrattate per contentare le donne e non stizzire il vecchio, e il resto del viaggio erano chiacchiere, racconti e musica d’organetto.
Ci andai pure io una volta o due, non avrò avuto otto anni, e sopra ogni cosa ricordo l’emozione per l’impresa che la sera prima mi straviava il sonno.
Poi verso il 1990 tutto mutò a causa, mi pare di ricordare, di una strana parola: metastasi. Le vacche furono vendute e Biagio si chiuse in un silenzio indecifrabile. Del resto non era neppure colpa del nonno se il Santo si ostinò a preferire la gola e infischiarsene dei polmoni… Ma che importa in fondo! Ormai, gola, polmoni o che, dormono tutti, ognuno sulla sua collina. E non è vero che il sole ne scalda l’erba tenera.