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    Home»tradizioni»D‘ISTÀ STIÀNI (D’estate, tanto tempo fa)
    tradizioni

    D‘ISTÀ STIÀNI (D’estate, tanto tempo fa)

    Marcello BenedettiBy Marcello Benedetti13 Luglio 2021Nessun commento4 Minuti di lettura
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    Amarcord, nel dialetto di Segonzano, in val di Cembra, del nostro collaboratore Marcello Benedetti. Già insegnante di italiano tra gli emigrati in Germania, approdato in Spagna, vive oggi in Germania. Ha mantenuto l’amore per le radici e il gusto del dialetto, quello non ancora contaminato dalla lingua italiana.

    L’è scomenzià l’istá. Anca sti àni, quànche mi èra en pópo, en t’el més de giùgn i seràva sù le scöle par tùta l’istà. Ma negùn de noi pòpi el savéva cònche l’èra “nàr al mare “, “nàr en vilegiatura”, o nàr en colonia. En pöche parole: nàr via dal paés. Che févente alora? Mi provo a davèrger el me casetìn de la memoria par véder cònche pödo gatàr …

    Prima de tùt se cognìva aidàr la mama (el pàre l’èra per lo pú su l’azimpòn, come i diséva ‘na vòlta, che l’èra dìr Svizera, Val Gardena, o altro) e i parènti, a laoràr en t’ei campi, a far för l’èrba sota le vigne e zapàr,  binàr ensèma el fén, el formént (spetàven la màchina da bàter), el formentàc, ‘ndaquàr i òrti, solfrár le vigne col sofiét (e dopo gavéven i òci che i spizegàva da far piànger), nàr par bröda (se gavéva almén en rugànt da guernàr). 

    Gh’èra da nàr soratüt en t’ei boschi col cestonèl par binàr su ciórciole e pitòte, zuèchi sechi, farlèt. E pó … ne piaséva nar tùti ensèma en t’el bòsc par fràgole, giàsene, ampómole, granèle; a cercàr finferli e brise (se n’ghe n’èra). Se n’gatàven tante, de brise, néven anca sul stradòn con quéla che se fermàssa varghe machina e vénderle par ciapàr su en par de zénto lire. Ma a quei tempi trafico ghe n’èra pròpri pöch. Féven ànca vàrghe brùta piazarolàda, soratüt con le fiónde (ghe tiràven ai piréti dei pali dela luce e anca ale grole), molàven vàrghe ciucöl bel gròs giò par i pràdi e i campi érti dela val par véderli sciopàr come bombe. 

    Ensoma èren come i osèi, liberi e mai fermi: quànche finìven de fàr sti misteròti giugàven tùti ensèma con quel che capitàva e ne vegnìva en mént! Néven a casa demò a magnàr e a dormìr. 

    No savéven cònche l’è la esser stufi (adess i la ciàma “noia”).

    Cembra anni Venti del XX secolo – Le immagini sono tolte da “Il Trentino dei contadini” 1921-1931 dell’antropologo e fotografo svizzero Paul Scheuermeier, (a cura di Giovanni Kezic), volume edito nel 1995 per iniziativa del Museo degli Usi e costumi del Trentino e della Cassa Centrale delle Casse Rurali del Trentino

    Traduzione per chi non comprende il dialetto della val di Cembra:

    “È cominciata l’estate. Anche molti anni fa, quando io ero bambino, nel mese di giugno chiudeva la scuola per tutta l’estate. Ma nessuno, di noi bambini, sapeva che cosa volesse dire andare al mare, andare in villeggiatura o andare in colonia. In poche parole: andar via dal paese. Che cosa facevamo allora? Provo ad aprire il cassetto della memoria per vedere che cosa vi posso trovare… Prima di tutto si doveva aiutare la mamma (il papà, per la maggior parte del tempo, era al lavoro sui cantieri, che voleva dire Svizzera, val Gardena o altro); gli altri della famiglia erano impegnati nel lavoro dei campi, a tagliare l’erba sotto le vigne, a zappare, raccogliere il fieno, il frumento (aspettavamo la trebbiatrice), il grano saraceno, si annaffiavano gli orti, si soffiava lo zolfo sulle vigne (e poi avevamo gli occhi che pizzicavano fino a far lacrimare); si andava al caseificio per prendere il siero del latte da dare in pasto agli animali (ognuno aveva almeno un maiale da governare nella stalla).

    Bisognava andare soprattutto nel bosco con una piccola gerla sulle spalle per raccogliere le pigne del larice e del pino, rami secchi e foglia per il lettime della stalla. Ci piaceva andar nel bosco tutti assieme per fragole, mirtillo nero, lamponi, mirtillo rosso; a raccogliere finferli (cantarellus cibarius) e brise (boletus pinicola) sempre che se ne trovassero. Se trovavamo tanti funghi andavamo sulla strada principale nella speranza che si fermasse qualche automobilista di passaggio e vendere il raccolto per portare a casa cento e duecento lire (oggi: un euro o due). Ma a quel tempo il traffico automobilistico era pressoché inesistente. Facevamo anche qualche marachella, soprattutto con l’uso della fionda (tiravamo agli isolatori sui pali della luce e pure ai corvi), facevamo rotolare sui pendii scoscesi dei prati o dei campi qualche grossa zucca per vederla alfine esplodere come una bomba. Insomma, eravamo come gli uccelli, liberi e mai fermi. Quando finivamo di raccogliere i prodotti del bosco, giocavamo tutti assieme con quel che capitava per mano e ci veniva in mente. Andavamo a casa solo per mangiare e per dormire. Non sapevamo, allora, che cosa volesse dire la noia. 

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    Marcello Benedetti

    Marcello Benedetti (1948), originario da Teaio di Segonzano, vive a Costanza, in Germania, il Paese dove è emigrato nel 1971 dopo aver conseguito la maturità magistrale. Ha svolto le mansioni di insegnante (1971-1975) per conto del ministero italiano degli affari esteri per i figli degli emigrati italiani in Germania. Per quarant’anni ha fatto l’assistente sociale per gli emigrati italiani a Konstanz e regione. Attività che ha svolto sino al pensionamento avvenuto nel 2014.

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