Secondo taluni studiosi, Dante avrebbe cominciato a scrivere la “Divina Commedia” in prossimità dell’equinozio di primavera.il 25 marzo 1300, giorno dell’Annunciazione. Secondo altri, l’Alighieri si sarebbe smarrito “nella selva oscura” il Venerdì santo del 1300, ovvero l’8 aprile. A sette secoli dalla morte del poeta fiorentino (avvenuta a Ravenna il 14 settembre 1321) rievocazioni sono in programma anche a Trento dove, l’11 ottobre 1896, fu inaugurato il monumento a Dante che domina l’omonima piazza dirimpetto alla stazione ferroviaria.
L’anniversario consente di recuperare pure un inconsueto episodio, del quale si occupò a lungo la cronaca nel primo decennio del XX secolo.
Il clamoroso furto fu compiuto nell’estate del 1907, in coincidenza col trasloco della biblioteca del Seminario vescovile di Trento dal Collegio dei Gesuiti, di Contrada Longa (oggi via Roma) al nuovo imponente palazzo fabbricato fuori porta Santa Croce, nella campagna verso la Fersina (oggi via 3 Novembre). Una biblioteca dotata di migliaia di volumi – in parte acquistati, in parte frutto di lasciti e donazioni – che si era venuta formando fra il XVII e il XIX secolo.
Tra i pezzi più antichi quanto preziosi, la biblioteca vantava (e vanta) un Codice manoscritto della Divina Commedia di Dante Alighieri (1265-1321), copiato da un amanuense (“non certo forte in latino, il che esclude che fosse un frate o un monaco”) sul finire del XIV secolo, vale a dire pochi decenni dopo la compilazione dell’opera del sommo poeta fiorentino. Un codice formato da 104 fogli di carta che, per la filigrana, si ritiene fabbricata fra il 1364 e il 1386.
Scriveva in “Studi Trentini” (II, 1921)don VigilioZanolini (1862-1950): “Come il nostro manoscritto giungesse in possesso del Seminario, non è noto. Molti dei suoi libri sono dovuti alla Biblioteca del Collegio de’ Gesuiti soppresso nel 1773; […] molti appartenevano al convento de’ Predicatori di S. Lorenzo, soppresso del pari negli ultimi due decenni del XVIII secolo; altri sono dovuti a un lascito di Pantaleone Borzio, altri infine a un legato Gentilotti. A quale categoria debba venir attribuito il nostro codice dantesco, non sappiamo”.
Quel Codice era stato esposto in una mostra, a Trento, nel 1875. Molti lo avevano visto e ammirato. Forse qualcuno ci aveva fatto un pensierino, subito ricacciato. L’occasione buona per mettere le mani su quel Codice si presentò nella fase di trasloco della biblioteca. I libri erano migliaia; le casse, una gran quantità. Quella che conteneva il Codice dantesco, assieme ad altri manoscritti “la cosa più preziosa della biblioteca”, fu “inchiodata solidamente e portata nel refettorio del vecchio collegio dei Gesuiti, un ampio locale a pianterreno, del quale fu chiusa la porta a chiave”. Così una dettagliata cronaca su “Come fu trafugato il Codice dantesco”, pubblicata dal giornale “il Trentino”, martedì 12 dicembre 1911.
Nell’estate del 1907 il via vai dei seminaristi e dei facchini era durato dal 24 giugno al 21 agosto.
Quando i libri furono ricollocati sugli scaffali del nuovo seminario, nessuno, in quei giorni, fece caso all’assenza del prezioso manoscritto. Se ne accorse il bibliotecario, al ritorno dalle vacanze estive, sul finire del mese di agosto. Forse, si disse, il Codice era finito fra gli altri libri, oppure…
Ad ogni buon conto decise di non far trapelare la notizia anche per non allertare il ladro, se si fosse accertato il furto.Della questione fu interessato il bibliotecario della Comunale di Trento, Ludovico Carlo Oberziner (1856-1916).
Verso la fine del 1907, il bibliotecario civico avvertì il collega del Seminario principesco vescovile che la libreria antiquaria di Firenze, De Marinis&C., offriva a un prezzo esorbitante un raro codice della Divina Commedia. Sulla fotografia stampata nel catalogo della libreria fiorentina, quel Codice aveva somiglianze col manoscritto tridentino. La didascalia, in francese, diceva: “Dante Alighieri, Divina Commedia, Manoscritto su carta del XIV secolo, con capolettera dipinti in rosso e blu. Vecchia rilegatura di cuoio di vacca, rossa, stampata a freddo. Prezzo 25.000 lire” (oggi, sia pure a spanne, circa 60mila euro).
Scrisse don VigilioZanolini (“Studi Trentini”, Anno II, fasc. IV): “Oltre la descrizione abbastanza minuta, ma non esauriente, del Codice, erano riprodotte nel catalogo alcune parti del poema. […] Chi aveva già visto e esaminato il Codice del Seminario, si accorse ben presto che tra esso e il manoscritto posto in vendita dalla casa antiquaria De Marinis, descritto nel catalogo, correvano delle analogie assai strette e delle somiglianze che non potevano essere attribuite a mero caso”.
A quel punto, il bibliotecario del Seminario, don Martino Demetz (1859-1948), decise di partire per Firenze, così da poter esaminare di persona quel manoscritto. Ma a Firenze il Codice dantesco non c’era più: era stato spedito a Londra, dove viveva un collezionista interessato all’acquisto. Se l’affare non fosse andato in porto, assicurò l’antiquario fiorentino, il Codice sarebbe stato spedito a Trento, allora territorio austriaco, per un esame preventivo.
Da dove proveniva quel Codice? domandò il bibliotecario al titolare della libreria antiquaria. Rispose: da una nobile famiglia bresciana, ormai decaduta, la quale aveva chiesto di mantenere l’anonimato.
Il mistero si infittiva.
Un anno dopo, naufragata l’ipotizzata vendita in Gran Bretagna, il Codice fu spedito a Trento con la disponibilità dell’antiquario a cederlo per la somma di 8.015 lire. Sia pure con le debite proporzioni e col valore di acquisto della moneta ampiamente modificato, si potrebbe dire che per quel manoscritto, al cambio corrente, furono chiesti l’equivalente di ventimila euro.
Avuto per le mani il Codice dantesco, il bibliotecario del Seminario lo controllò, lo fece esaminare da altri esperti, e “colla dichiarazione che esso era il manoscritto scomparso e che apparteneva di diritto al Seminario maggiore della diocesi” lo depositò presso il Tribunale di Trento.
Avuta la certezza del furto, il 12 marzo 1909 fu presentata formale denuncia al Procuratore di Stato.
L’autore del furto fu individuato qualche mese dopo a Innsbruck e trasferito in carcere a Trento. Si chiamava Ariberto Cassoni. Nativo di Strada di Pieve di Bono, dopo una vita randagia e vari furti all’attivo, era stato preso a servizio nel Seminario vescovile. Saputo del manoscritto durante le fasi del trasloco, lo aveva rubato e si era licenziato dal Seminario. Tornato a casa, in val del Chiese, il giorno seguente si era recato a Brescia. Qui, dopo aver girovagato col Codice avvolto in un foglio di giornale e aver bussato a varie biblioteche, lo aveva venduto al libraio Angelo Delai.
Alla data del 3 agosto 1907, il libraio scrisse sul proprio registro di cassa: “Zinini Alfonso, da Trento, mi vendette un manoscritto miniato della Divina Commedia di Dante e si obbligò di prenderla di ritorno, ripassando da qui dopo un anno e di restituirmi l’importo pagato di Lire 50”.
Tuttavia, dimostrando di non credere a un riscatto del Codice, il libraio bresciano lo aveva inviato a un antiquario di Firenze con il quale aveva pattuito una somma di 500 lire.
Il processo al servo “sciocco” del Seminario vescovile si tenne a Trento, avanti la Corte d’Assise, nel dicembre 1911. La cronaca di quel processo fu pubblicata con ampio risalto dal giornale “Il Trentino”. Nel corso del dibattimento fu esaminato il Codice, si discettò sul valore reale (dalle 12 alle 15 mila corone austriache), furono interrogati vari testimoni.
La pubblica accusa domandò la condanna dell’imputato.
Per la parte civile, l’avv. Lutteri dichiarò: “Il Codice, creato nelle lunghe veglie da un amanuense, forse cinquant’anni dopo la morte di Dante, è cosa sacra, consacrata dal tempo, dalle memorie, dalla gloria di Dante. Questo furto è un sacrilegio, come quelli che il Cassoni commetteva quando scassinava i ceppi delle elemosine nella Val di Non. Perciò il Seminario, che ci tiene a quel Codice come a un tesoro, e lo può riavere solo attraverso la condanna dell’accusato, perché solo questa permetterà di ricuperare il prezioso cimelio, non solo al legittimo proprietario, ma anche al Paese che ne va altero”.
L’avv. Conci, difensore del Cassoni, dopo aver rivelato che il suo assistito si era “riabilitato [dai reati compiuti in Val di Non] con tredici anni di vita onesta”, negò che il codice rubato al Seminario vescovile fosse quello proposto in vendita dall’antiquario di Firenze: “Questa è una delle molte copie fatte quasi industrialmente da uno scolaro e non ha valore artistico. Di più poi, nessun teste ha detto di riconoscerlo indubbiamente per quello del Seminario”.
Propose, pertanto, la piena assoluzione del proprio assistito.
I giudici della corte di Assise di Trento furono di ben altro parere. Il 12 dicembre 1911 fu pronunciata la sentenza con la condanna di Ariberto Cassoni a tre anni di carcere duro. Meno di un mese dopo, il 9 gennaio 1912, la sentenza fu confermata in secondo grado.
E il Codice dantesco? Per riaverlo, il Seminario vescovile avrebbe dovuto avviare una causa civile, dall’esito non scontato, nei confronti del libraio bresciano e della Casa antiquaria di Firenze. Nell’incertezza, furono intavolate trattative con la Casa de Marinis che lo restituì al Seminario di Trento dietro il pagamento di 4 mila lire.
Giusto in tempo, prima che l’Italia dichiarasse guerra all’Austria. Quasi una singolare ironia del destino, a quel Codice dantesco taluni avevano legato una valenza quasi notarile sulla plurisecolare italianità del Tirolo meridionale.
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