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    Storia&Storie

    Nome in codice: Valchiria

    Renzo FracalossiBy Renzo Fracalossi22 Luglio 2024Nessun commento11 Minuti di lettura
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    Il 20 luglio di ottant’anni fa, il corso della storia mondiale poteva essere radicalmente modificato, con conseguenze inimmaginabili. Infatti, se il tentativo di colpo di Stato in Germania, ordito da alcune opposizioni interne soprattutto alla casta militare, fosse andato in porto a seguito dell’uccisione di Adolf Hitler, i congiurati avrebbero potuto avviare trattative di pace separata con gli anglo-americani, per poter proseguire invece il conflitto ad est, con esiti del tutto imprevedibili. Si trattò di una congiura prevalentemente militare, priva di agganci politici e di un saldo rapporto con le masse e quindi destinata a non avere successo. D’altronde, fin dal suo avvento al potere Hitler ed il nazismo sguaiato e violento non avevano incontrato il favore delle èlites militari tradizionali, che rifiutavano il processo di politicizzazione delle forze armate e la nuova centralità dello Stato, poggiata solo sulla figura del Führer, cioè del “capo assoluto ed unico” e del suo dominio totale sul Reich.

    Il nazionalsocialismo, ai suoi esordi ed anche dopo i primi segni della sua esistenza politica, venne guardato con sufficienza e disprezzo dal militarismo prussiano che, nonostante la sconfitta nell’immane macello della prima guerra mondiale, giocava un ruolo non secondario nella nuova, quanto fragile, repubblica democratica tedesca, quella di Weimar, nata dalle ceneri dell’impero del kaiser Guglielmo II e dal fermento politico e culturale dell’immediato dopoguerra.

    Quel “caporale boemo”, come lo aveva apostrofato il vecchio generale Paul von Hindemburg presidente della repubblica, non poteva affatto pretendere di competere con la ricca classe dirigente degli Junker, i nobili latifondisti prussiani, nella guida dello Stato. Al massimo poteva essere utilizzato, con le sue squadracce di ex soldati e di disoccupati insoddisfatti, per spazzare la “feccia comunista e spartachista” che tentava di importare in Germania l’idea bolscevica del governo dei “soviet”. Così si pensava nei circoli più esclusivi del mondo tedesco.

    “L’esercito è lo Stato”. Questo fu il motto del regno di Federico il Grande e su questo assunto si venne fondando la forza dello Stato prussiano che, dopo aver sconfitto Maria Teresa, affrontò Napoleone, vincendolo a Waterloo.  Il genio napoleonico e quella vittoria finale contribuirono non poco a rivoluzionare la cultura militare dell’epoca, con le riforme fondamentali volute da studiosi e strateghi come August von Gneisenau, Gerhard von Scharnhorst e soprattutto Karl von Clausewitz, autore del più famoso testo di teoria bellica e cioè il “Vom Kriege” (Della guerra). Su tali presupposti venne così creandosi la potenza militare tedesca che, sotto la guida del “Cancelliere di ferro” Bismarck ed in virtù di un’economia in espansione, piegò la Francia, assurgendo al ruolo di grande potenza mondiale. L’esercito quindi come imprescindibile perno politico, sociale ed economico dello Stato: era questa l’eredità trasmessa dal XIX secolo alla Germania imperiale prima e repubblicana poi.

    Va da sé che con simili premesse, le velleità di quell’istrionico imbonitore politico con la voce stridula e che mirava al potere, non potevano trovare condivisione fra i vertici militari, protesi solo a conservare e sviluppare l’impianto generale delle forze armate, dopo gli obblighi di contenimento imposti dal trattato di Versailles, quale fondamento e base ricostruttiva dello Stato tedesco. Ma mentre gli ufficiali con il monocolo e con la loro rigida etichetta ridevano di lui, Hitler riusciva a conquistare le masse e con esse i voti per impossessarsi progressivamente del potere parlamentare, fino a quando i due protagonisti di questa fase furono costretti a trovare un compromesso utile ad entrambi. Al Cancelliere vincitore delle elezioni nel 1933 venne quindi chiesto dall’esercito di decapitare le milizie delle SA, che puntavano a subentrare all’esercito tradizionale quali forze armate del nuovo Stato nazionalsocialista ed in cambio, militari si impegnavano a sostenere il “piccolo soldato” nel suo definitivo consolidarsi al potere.

    Ciò premesso, va anzitutto registrato come, già nel 1938 e con l’annessione dell’Austria (Anschluss), alcuni gruppi di intellettuali e di ufficiali iniziarono ad allontanarsi culturalmente e moralmente dal regime, dando forma critica ad una crescente ed appunto profonda insofferenza, resa più acuta poi dall’inversione delle sorti del conflitto. E’ in quell’alveo critico che, con lo scoppio della guerra e nonostante i travolgenti successi iniziali della “Blitzkrieg”, gradatamente venne formandosi il progetto di un possibile colpo di Stato militare, capace di chiudere i conti con il nazismo e di avviare trattative di pace, al fine ultimo di salvaguardare la Germania ed il suo futuro. I generali tedeschi erano professionisti seri e preparati e, pur assecondando i ripetuti azzardi di Hitler e del suo regime, soprattutto in politica estera, avvertivano un disagio – dovuto anzitutto all’ingerenza del Führer nella difficile scienza militare ed alimentato anche da alcuni scandali a sfondo sessuale, forse appositamente montati dalla Gestapo contro alcune alte gerarchie dell’esercito – che sfociò ben  presto in qualche pesante disaccordo e con alcune dimissioni “illustri”, come quelle del capo di stato maggiore, gen. Franz Halder, uno che non subiva il magnetismo di Hitler e che palesava troppo spesso le sue opinioni avverse  a quelle del dittatore su questioni tattiche e strategiche o come quelle, prima di lui, di altri alti ufficiali – i generali  Beck, von Fritsch e von Blomberg – che avevano scelto, per una pluralità di ragioni, la strada dell’abbandono del loro ruolo, palesando così il dissenso e la distanza dalle intransigenze hitleriane.

    Mentre veniva formandosi quindi un nucleo di opposizione, peraltro compresso dal rigido controllo poliziesco della Gestapo e non solo, anche alcune figure di spicco del cattolicesimo e del mondo protestante, come il cardinale von Galen, il vescovo Wurm e il pastore Bönhoffer, parteciparono, per quanto possibile, a disegnare un profilo di critica al regime, soprattutto quando  vennero in superficie gli obiettivi omicidi dell’”Aktion T4” cioè il progetto eutanasico destinato ad eliminare ogni portatore di debolezze, ritardi e/o handicap: le cosiddette “vite indegne di essere vissute”.

    Ben presto quindi, a partire dall’ambiente militare ivi compreso quello dell’Abwehr i Servizi segreti dell’esercito, si fece strada l’idea che solo la definitiva scomparsa di Hitler avrebbe potuto mutare le sorti della guerra e salvare il Reich, anche se alcuni abborracciati tentativi di muoversi in questa direzione fallirono ancor prima di vedere la luce, a causa di pavidità, contrattempi ed imprevisti. Questo fu il clima nel quale maturò il progetto del più “serio” tentativo di eliminazione fisica del dittatore.

    Tutto prese avvio nel contesto di alcune conversazioni riservate fra il feldmaresciallo von Kluge ed i generali Beck, Olbrich, Oster con il dott. Goerdeler, già borgomastro di Lipsia e strenuo oppositore del nazismo. Il tema iniziale era quello di fronteggiare la guerra con la consapevolezza di non poterla sostenere su due fronti. Fu da tali riflessioni che, più tardi, si sostanziò un complesso, per quanto limitato, movimento antinazista che assorbì gli intellettuali del “Circolo di Kreisau”, guidato dal conte von Moltke che da anni alimentava il rifiuto delle politiche del regime e, infine, un crescente numero di alti gradi militari, come il feldmaresciallo von Witzleben ed il generale Speidel. Da tempo, i vertici dell’esercito territoriale, cioè i reparti di riservisti destinati alla difesa del suolo nazionale, avevano elaborato un piano strategico, denominato “Operation Walküre” (Operazione Valchiria), per fronteggiare una possibile insurrezione di massa o una rivolta interna o nei territori occupati, a seguito della situazione sempre più difficile nella quale viveva la società tedesca sotto le continue bombe degli Alleati. A questo punto, con minimi aggiustamenti tattici, bastava solo utilizzare l’esercito territoriale, anziché contro il popolo, contro le SS e i vertici del nazismo. Con il settembre 1943, vennero predisposti quindi nuovi ordini per l’occupazione armata dei ministeri e della sede del governo a Berlino, ma anche del quartier generale del Führer, delle stazioni radio, delle centrali energetiche e degli obiettivi strategici. Nel frattempo venne impostato l’attentato ad Hitler, nella consapevolezza che solo la morte del dittatore avrebbe potuto dar corso al colpo di Stato. Del gesto materiale si incaricò il colonnello Claus Schenk Graf von Stauffenberg, un ufficiale di grandi tradizioni, proveniente dalla nobiltà e dalla cultura cattolica bavarese, pluridecorato e grande invalido di guerra.

    Il 1° luglio 1944, quest’ultimo venne nominato capo di stato maggiore presso il comandante dell’esercito territoriale, anch’egli coinvolto nella congiura e ciò diede modo a von Stauffenberg di poter presenziare alle riunioni informative tenute da Hitler, sia nella “Wolfschanze” (Tana del lupo) nella foresta di Rastenburg in Polonia, sia a Berchtesgaden sulle Alpi bavaresi. Il ruolo del colonnello divenne quindi essenziale per la riuscita del complotto, che si fondava su di un copione prestabilito, dal quale avrebbe subito poi preso avvio l’Operazione Valchiria, con una serie di arresti immediati delle maggiori autorità naziste del Reich.

    La mattina del 20 luglio 1944, il colonnello von Stauffenberg arrivò a Rastenburg, in compagnia del tenente von Häften. Entrambi portavano una bomba, composta da circa un chilogrammo di esplosivo al plastico, celata nelle loro valigette d’ufficio. Appena atterrati, il tenente diede ordine al pilota di tenersi pronto per ripartire rapidamente per Berlino, poi, superati senza intoppi i tre anelli di controllo e le perquisizioni delle SS, i due congiurati giunsero alla “Tana del lupo”. Erano le ore 11.00 del mattino. Il resto della vicenda è piuttosto noto. La borsa di von Stauffenberg sotto il tavolo; l’esplosione che non uccide Hitler; la veloce fuga degli attentatori verso Berlino; la confusione generatasi da una mancata conoscenza degli esiti precisi dell’attentato; il caos fra gli altri congiurati, che non avevano affatto previsto la possibilità della sopravvivenza del Führer e la pavidità di molti che decisero di non decidere, in attesa degli eventi. La lentezza e le troppe esitazioni decretarono il definitivo fallimento del “putsch”. Alle ore 20.00 di quel giorno, i protagonisti del complotto si ritrovarono quasi tutti nelle caserme del Bendlerblock a Berlino, mentre la struttura veniva circondata dai reparti fedeli al Führer.

    Qualche sparatoria e due ore più tardi, i principali congiurati vennero arrestati. Pochi minuti dopo mezzanotte, il colonnello von Stauffenberg, il generale Olbricht, il colonnello von Quirnheim ed il tenente von Häften furono messi al muro e fucilati. Qualche attimo dopo, giunse il maggiore Otto Skorzeny, il liberatore di Mussolini sul Gran Sasso, che fermò le fucilazioni, arrestò gli altri protagonisti del complotto e li consegnò alla Gestapo, la quale fece immediatamente partire indagini in tutta la Germania.

    Perquisizioni, arresti, torture, pressioni psicologiche e supposizioni senza prove concrete portarono ad una ondata di arresti, evidenziando come il progetto del colpo di Stato avesse già preso avvio nel ‘38, per poi essere sospeso e ripreso con le prime grandi sconfitte tedesche sul fronte orientale. Seguendo le disposizioni del “Sippenhaft”, un principio giuridico introdotto dal nazismo e che prevedeva la possibilità di arresto per i parenti degli accusati di gravi crimini anche se innocenti, la Gestapo mise in manette oltre cinquemila persone, cogliendo così l’occasione per regolare molti conti all’interno del Reich e nelle file delle poche e flebili opposizioni al regime.

    I partecipanti principali vennero processati dal “Tribunale del Popolo”, presieduto da un giurista fanatico e sanguinario come Roland Freisler, che pervenne rapidamente ad una generale condanna a morte. Il Führer in persona volle che i condannati venissero “impiccati ed appesi come bestiame da macello” nella prigione di Plötzensee a Berlino, quale monito per chiunque altro avesse coltivato qualche ulteriore velleità golpista.

    Ma anche chi aveva avuto solo sporadici contatti con i congiurati venne raggiunto dalla vendetta, come nel caso dell’ammiraglio Canaris, già capo dell’Abwehr il Servizio segreto militare, fucilato a Flössenburg o del suicidio dei feldmarescialli Rommel, von Kluge e di parecchi alti ufficiali, mentre altri ancora vennero arrestati e spediti nei Campi di concentramento, come nel caso del generale Halder.

    Infine i sopravvissuti. Per quanto strette le maglie della Gestapo e per quanto accurate le indagini, qualche congiurato riuscì a sfuggire e alcuni di loro fecero poi carriere straordinarie. Fra costoro spicca il gen. Reinhard Gehlen, già capo dello spionaggio tedesco in U.R.S.S., fuggito negli Stati Uniti alla fine della guerra e collaboratore della C.I.A. e dei Servizi segreti della Germania ovest (B.N.D.) fino a diventarne il responsabile. Accanto a lui il gen. Hans Speidel che, arrestato dallo Gestapo e sottoposto per sette mesi a lunghi interrogatori, non ammise nulla e fu salvato da un Gran Giurì d’onore militare, evitando così la fucilazione. Nel dopoguerra fu professore universitario a Tubinga e poi uno dei fondatori del nuovo esercito tedesco, fino a diventare, negli anni Sessanta, il comandante in capo di tutte le forze terrestri della N.A.T.O. in Europa. Infine, Hans Bernd Gisevius, già funzionario della Polizia di Monaco e poi diplomatico di rango, dopo l’attentato riuscì a riparare in Svizzera e divenne uno dei maggiori testimoni dell’accusa durante il processo di Norimberga. Anche altre figure più marginali nel complotto, come il gen. von Gerdoff, il banchiere von Glött e l’industriale Löser, si salvarono, ma furono veramente pochi.Al pianterreno del Landesmuseum Württemberg di Stoccarda è stato allestito un “Memoriale” in ricordo dell’attentato, così come a Berlino, nel carcere di Plötzensee, un museo commemorativo ricorda le vittime della repressione nazista. 20 luglio 1944, il giorno che poteva cambiare la storia.

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    Renzo Fracalossi

    Renzo Fracalossi, è nato a Rovereto il 5 luglio 1961. Risiede a Trento dove, dopo gli studi umanistici, lavora nella pubblica Amministrazione. Presiede l'associazione culturale "Club Armonia"; è componente della "Società di Studi Trentini di Scienze storiche" e della S.O.S.A.T. Ricercatore e divulgatore, si occupa da decenni di approfondire e narrare l'antisemitismo e con esso la Shoah e di indagare la storia locale. Collabora con università e centri di ricerca europei su tali questioni ed ha all'attivo alcune pubblicazioni e contributi. È autore teatrale, iscritto alla S.I.A.E., con testi rappresentati in sede locale e nazionale.

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