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    Home»Testimonianze»La Spoon River di un manicomio
    Testimonianze

    La Spoon River di un manicomio

    redazioneBy redazione27 Marzo 2024Aggiornato:28 Marzo 2024Nessun commento15 Minuti di lettura
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    “Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley, il debole di carattere, il forte di braccio, il clown, l’ubriacone, l’attaccabrighe? Tutti, tutti, dormono sulla collina. Uno morì di febbre, un fu arso vivo in miniera, uno fu ucciso durante una rissa, uno morì in prigione; uno precipitò da un ponte mentre lavorava per i suoi. Tutti, tutti, dormono, dormono sulla collina”. È l’incipit dell’Antologia di Spoon River, una collezione di poesie scritte da Edgar Lee Masters e pubblicate su un giornale del Missouri tra il 1914 e il 1915. 

    In codesta stagione che sembra favorire un’intensa instabilità emotiva, che varia le sue accentuazioni nelle diverse latitudini e stimola “rivolte del pensiero”, per dirla col celebre studioso Mario Galzigna, esce da un cassetto una straordinaria “ballata di Pergine”. È stata scritta in anni passati da Ilaria Collini che ringraziamo per averci consentito di proporla ai lettori de iltrentinonuovo.it a cento anni dalla nascita dello psichiatra triestino Franco Basaglia che aprì i manicomi al mondo che era già un immenso manicomio di proprio.

    LA BALLATA

    DI PERGINE

    di Ilaria Collini

    1.Povero babbo caro, 

    tu a Tesino volevi rendermi del campo tuo cultore ma io 

    amavo, prediligevo, ambivo di risvegliarmi un giorno pescatore. 

    Da amabile parente quale eri, tu ti informavi da certi appigli tuoi 

    di mare e lago 

    al fine di un mio imbarco fra il popolo delle reti e intanto

    mi incoraggiavi, i giusti attrezzi mi procuravi. 

    Quando un bel giorno salii di punta sul campanile 

    l’amo gettai e con mio gran stupore 

    in mia saccoccia presi il prete, le guardie, qualche infermiere. 

    2. Mammina mia adorata, 

    a Cavareno volevi fossi miglior massaia, la più invidiata, la più cercata 

    e alle novene pregavi il buon Gesù 

    di un maritino accorto, acconcio 

    scambiandolo a prezzo di due fioretti, di un tocco di candela in più. 

    Il Signorino, mia bella mamma, t’ha accontentato 

    fra i giovani del posto mi fa la corte Antonio 

    che ha scosse rispetto agli altri davvero poche, 

    fra tutti è alto, lindo e il meno abbrustolito. 

    3. Ho il letto allagato dai pensieri 

    allargato ho a perdifiato i nastri, le fascette 

    ma in mio potere non è spezzare di scienza le catene. 

    Se prima li sperdevo a rate fra corridoi e giardini 

    ora son qui assembrati tutti ad inquinare ciò che mi si coglie attorno 

    e spero faccia presto giorno e un’anima 

    caritatevolmente pia 

    mi venga a rassettar. 

    4. Lampi di buio blu, 

    rammento le folaghe d’estate schivar l’arsura. 

    Tuoni di rosso sgomento, 

    se ho vinto non ho perso, se ho perso grondante accorre il pianto. 

    Fasci di bianca sorte, 

    sotto un esile cipressin mi voglio barattar la guarigione con un istante di placata ubiquità. 

    Sulla cartella han scritto: trenta scosse. 

    Vi leggo: trenta disordinate danze di petto prese, a pugni, a morse. 

    5. Invoco la clemenza della corte. 

    Giù per Milano studiavo da avvocato e pure ero bravo ma 

    un giorno alla lezione il professore 

    diceva di codici e cavilli ed io 

    sentivo ronzarmi nella testa, per Giove! 

    fra zoccoli e nitriti 

    l’odor di cento e più cavalli. 

    Eppur non ho cessato di esercitare: qui un poco tutti hanno bisogno 

    del leguleio che in vece loro 

    si rechi dall’infermiere a perorare, discutere, probare. 

    Clienti ne ho a bizzeffe, la mia parcella è di pane un tozzo, 

    sto alla sbarra con gli imputati, i giudici un po’ corteggio un po’ corrompo. 

    Sol di una cosa rammarico io tengo: fuor dalla porta del camerone 

    non ho la targa con titolo e cognome. 

    6. Questa è egritudine coatta che di lenir 

    dei sintomi paura 

    affatto non si cura. 

    Rimpiango la mia stanzetta di bimbo febbricitante 

    ove star male era una perfida scalogna da risarcir con brodo, bacio, affetto. 

    Qui l’infermiere dall’occhio sguincio e col pizzetto 

    più io m’aggravo e più m’osteggia con livido diletto. 

    7. Da colto e dotto e fin dottore io sono 

    propugnatore della teoria di utilità sociale. 

    Dal fabbro al carpentiere ciascuno al mondo ci viene 

    per espletare il proprio suo mestiere 

    e rendere l’insieme meno guasto, 

    ciascuno si fregia di titolo e missione. 

    E poi ci sono i matti: 

    queste cisterne idiote che solo carità ti fa riempire, 

    intenti come sono il tutto a peggiorare. 

    Fosse per me darei appagato l’ordine di serrar le lor cucine. 

    8. Noi matti, 

    aguzzo mormorio di verità celate 

    brune cavità di misantropo mal senso. 

    9. Io son di Bondo e la mia mamma 

    al tempo giusto 

    m’ha illustrato le doglie, i patimenti a partorire 

    ma pur m’ha detto che stringersi il bambino al seno 

    è la più grande gioia a raccontare. 

    Se tu sapessi mamma alla scossa che pena ho da soffrire 

    ti stupiresti che a casa non ti torni quadrigemellare. 

    Ma lo psichiatra è un’ostetrica speciale che l’anima ti fa sputare e poi 

    smarrisce il nascituro. 

    10. Psichiatria. 

    Su questa branca medica io ho tragica, modesta opinione. 

    Inconfessata, occulta brama di punire 

    come l’adulto esasperato di fronte a un bambinetto ottuso 

    che sceglie di male comportare. 

    11. Colonia agricola La Costa. 21 m… . Sognando Spartaco. 

    Io sono qui che zappo, sarchio, sudo e vango. 

    Colla fatica mia ci mangia la feudale cittadella che chiaman manicomio: 

    malati, medici, infermieri, i preti, suore e occasionali assalitori. 

    Di tale multiforme torma avrò coscienza di una ventina, 

    chiamarli amici è tanto. 

    Il mio salario son dose da bisonte di calmante e di calvario. 

    Codesto tetro affresco scandisce del mio badile il colpo. 

    Mi salva solo il cogitamento: ogni ferita alla terra bruna 

    è verso la guarigione un varco. 

    Sempre, ad ogni caso Spartaco sognando. 

    12. Il manicomio è dell’umanità il serraglio. 

    Frenici, maniaci, spastici, idioti: ciascuno qui 

    mostruoso abitatore, 

    custode insano, 

    orrida fiera, 

    esempio al bacio del male suo 

    sia esso lungo o passeggero, o forte o piano. 

    E tu visitatore ignoto che visitando un po’ ti schivi sappi 

    se ognun di loro è un quadro tu per ciascuno avrai 

    due schegge di cornice da spartire. 

    13. Chi ha mal di mente la notte sognicchia poco e piano 

    che suo malgrado il giorno scorso 

    lo fece già abbastanza 

    desto restando. 

    14. Dal mio mestier psichiatrico io spesso mi ritempro 

    le forze attorno al cuor rassempro e fra me e codesto luogo 

    di terra oceani o d’acqua metto. 

    Il mio collega domanda quieto, quieto risposta ottiene. 

    Io interrogo, estorco, tramo, 

    col duol, l’inganno, la bruta forza ciò che io cerco io mi procuro 

    ma spesso invano. 

    Ciascun di loro è chiusa roccaforte, 

    che espone insegne in aramaico, in esperanto 

    a me che in altra lingua canto. 

    15. Cara sorella mia, 

    dai nostri monti rendenesi quaggiù son sceso a fare l’infermiere, 

    mi dicon m’abbian preso in grazia del mio vigore, te lo ricorderai, del resto 

    quando quei tronchi alti giocavo a sollevare… 

    Se un matto strepita lesto lo afferro, la carne sua possiedo ma il resto, lo so 

    è un’illusione. 

    Le ossa cauto stringo, il soffio d’anima 

    dal male 

    altrove, penso, è spinto ed io un saccone vuoto la petto tengo. 

    Quanto dai tronchi l’uomo sai è diverso 

    persino un piano montanaro qual me comincia a ragionarlo. 

    16. Io clamo, pretendo, voglio 

    che ognun nel refettorio ci porti il suo bagaglio e poi 

    col suo vicino del mal che porta addosso ne faccia cambio. 

    Sarebbe assai istruttivo ma il mio compagno alla proposta 

    la bocca sua spalanca e inviperito un raglio affranca. 

    17. La noia ha vinto, ci ha sopraffatto. 

    Il manicomio: rissoso coro di cupidi sbadigli a lento passo.

    18. Qual donna mi si prende più? 

    Son vecchio, sdentato, sfatto. 

    A mezza bocca, laggiù in guardiola 

    di donna oscena io sento sussurar. 

    Che male mai avrà fatto poverina un simile, bruttin giudizio a meritar? 

    Se esco io le propongo: uniamo le due disgrazie, le due cattive reputazion 

    e nei freddi momenti di sconforto entriamoci l’un l’altro, 

    il dolce mistero della vita a rinnovar. 

    19. Ne ho due alle braccia, due alle reni 

    in questo bivacco opaco di umida complicità. 

    Non siamo in cinque, per vero son da solo. 

    Io, i miei pensieri. 

    Io, della mia mente le incongruenze scure. 

    Scantono e brucio. 

    20. Stanchezza e libertà. 

    Gli ossimori, se incatenati, regalano di verità spiraglio. 

    21. Da bimbo la nonna in premio mi dava lo zucchero sul pane. 

    Io mascalzone un poco poi di dito in scatola intingevo. 

    Ora lo zucchero è necessario antidoto a comatosa pratica, 

    non mi risveglio poi però affatto zuccherino, dolce, placato. 

    Piuttosto in gola ho l’amaro 

    d’esser messo a dormir, 

    ridotto a tacer 

    mio malgrado. 

    22. Io sono il Cerbero dei comatosi del primo camerone 

    ch’anno insulina in corpo quanta ne basta ad oscurare il lume di coscienza. 

    Son qui e passeggio a passo rado fra i placidi dormienti 

    vegliando alcun di loro non vada morto. 

    Ora mi sento un archivista che 

    muti faldoni ignaro indaga, scontento di sua sorte. 

    Ora una madre trepida, accorta che 

    fa la spola fra il letto suo, delle creature sue il giaciglio. 

    Ora un novello capitano che 

    custodisce il sonno del reggimento. 

    Ma i miei faldoni sono storti, 

    creature mie un po’ contorte e questo 

    è il reggimento del mio sconforto. 

    23. Marisa mia bella dagli occhi di stella, 

    per te a certe ore io vengo fra il parco nelle siepi, 

    ti salgo dolcemente dentro e 

    come cigno e cigna 

    all’amore involiamo, l’amore facciamo. 

    In questo mondo di freddo medicamento, di parola incarcerata

    tu sei mia furiosa stilla di vita, incandescente di lava appello che viene a dirmi 

    quanto ancora umano sono. 

    24. Al parco le coppiette tubano, alcune più in là si spingono 

    e male che vada subiscono l’ammenda insipida d’un giovane carabiniere. 

    A me, Diletta mia adorata, per averti sul collo fra l’erba baciata 

    mi toccano due scosse e un po’ di contenzione. 

    Al cambio dell’amore lo vedi quanto t’amo 

    che il bacio tuo 

    parecchio più dell’usuale mi va a costare. 

    25. Luigino, ti prego non riportarmi a letto. 

    Lo vedi, ai piedi mi inginocchio, le mani porgo in croce 

    con l’occhio lucido della promessa giuro che ti starò tranquillo. 

    Anche quel pugno è il frutto di un errore, persuaso ero 

    che quel degenerato m’avesse di due panin frugato. 

    Luigino, ti prego, non riportarmi a letto 

    che è un eufemismo dir che mi sta stretto. 

    Ma tu non pieghi punto e coll’ Arturo e col Brutale 

    mentre io strepito da matto umetti le fascette, 

    m’indichi col capo il prezzo del contrappasso. 

    26. Fosse mia scelta, oltre certo ad esser dimesso, 

    invocherei d’esser fra le donne trasferito, in lor reparto. 

    Noi uomini crediamo di mettere al pianto un bel bavaglio e 

    che al gran sconforto 

    con celia, burla, riso maldisposto vada risposto. 

    Noi siamo isole concluse di malagio affranto. 

    Le donne pazze in lor difetto sono pur sempre 

    una nazione aperta, solidal di libero conforto, 

    sono una spalla spalancata al pianto ed 

    il dolor di una è di tutte perdizione. 

    27. Mi avverto tortora incolpevole 

    quanto batuffolo urta elettrodo 

    e il capo urtica. 

    28. Cardiazolo, 

    sfrigolio di perfidi coralli 

    al di sotto 

    della cupola della calotta. 

    29. Signor Meduna, 

    i pazzi del padiglion Ferretti 

    faranno una colletta di ringraziamenti. 

    Pensavi a noi quando creavi cura 

    che gli animi violenta, 

    coscienze dilacera e scarnifica, 

    anime sfrangia? 

    Ma se solo da chimico inseguivi 

    di una molecola chimera 

    venia ti concediamo. 

    30. Quanto grande può farsi il tuo fantolino 

    di pochi giorni partorito. 

    Quando in braccio lo tenevo, quando blanda lo cullavo 

    vitello grande e grosso mi appariva ed io 

    misera, indifesa 

    sotto l’altezza del suo peso. 

    Così me lo scansavo, me lo schivavo, me lo evitavo 

    scogitando false incombenze nel cucinino. 

    Quando mio madre, il padre suo 

    stupiti lo consolavan di mia assenza pure agli occhi miei tornava tenero piccino 

    e la tristezza, cupa, dilagava. 

    Di star qui in fondo son contenta che al vagito suo più non mi tocca di badare 

    ma prego i signor dottori mi facciano tornare presto ad esser buona madre. 

    31. Schierati a giorno per pillole, pastiglie, gocce 

    pariamo folla d’acume, astume, aguzia depredata 

    ed istigata a tenere speranze di acerbella sanità. 

    Infilati a sera per la terapia 

    pariamo medusa ossuta, imboccata al singhiozzo 

    vitale quanto la riga di sopra della guardiola il muro. 

    32. Voi pazzi, penombra assorta di meditata infatuazione 

    come lombrichi inconcludenti 

    in fila indiana 

    al magro pasto della vita. 

    33. Maremmano non faccio di cognome eppure a questo si riduce il mio officio. 

    Con l’occhio vitreo raduno di pecore matassa, la imbroglio, la scombino 

    e così lasca, ingarbugliata dietro me la strascino. 

    Giardino. Guardiola. Refettorio. 

    Tu, matto incandescente, rattremi al mio scoccante sguardo. 

    34. La disutilità misuro raccosciato nel canto destro del camerone. 

    La Pizia uno sbadiglio avrebbe a cantarmi la mia sorte, 

    l’oracolo di sonno un colpo. 

    Mentre invidio le ardenti frenesie dello studente, del lavorante che produce 

    l’istante del mio senso di missione 

    è laggiù per corridoi che scappa, fugge, fugge e fugge. 

    35. Un po’ è passato dalla distribuzione, il farmaco si fa sentire. 

    Subbuglio di sovratoni delle Valchirie 

    ma addormentate 

    alle pareti del mio sentire. 

    36. Fin da Cloz son giunto con furore 

    Io che sono il Signore, il Salvatore, il Cristo Redentore. 

    Ringrazi pure il carabiniere mi sia astenuto Io da ogni mio potere 

    contrario caso stante, quando agio avrebbe avuto lui ad imbrigliarmi? 

    Ho chiesto al medico perché sovra la testa sua tenesse ancora croce 

    ora che in vece della copia ha brillante, astante l’originale 

    ma muto tacque. 

    Io che ero somma Grazia, Potenza, Forza 

    qua dentro appeso, lo riconosco, son divenuto 

    fra i compagni di sventura 

    signore di mestizia. 

    37. Questo luogo è una congiura a strappare, sabotaggio oscuro a sradicare. 

    Dal corpo i vestimenti, dal piede lo scarpino e teneri gli affetti al cuore. 

    Per poi muto ritirare ed in un angolo l’animo mio di lacrime svenare. 

    Mamma, il portafogli m’han rubato con tua fotografia ma 

    osanno la maestra di quinta elementare ché 

    le poesie a memoria, quel gran conforto, nessuno me le potrà levare 

    e in quella notte di tutto m’han spogliato 

    di scarpe e d’acciarino 

    che non di me stesso. 

    38. Malarica insinuazione, entro il sangue vivido s’adagia 

    l’involontario maleficio di zanzara ed 

    il mio tremito di febbre a loro dire ricupera, rammenda, sana. 

    Io sento solo che fra questo di denti sbattimento 

    la malattia rinvigorisce. 

    39. Non curo umani, io curo enciclopedie 

    d’ogni sano vocabolo emendate che 

    debbo riscrivere fra le lacune. 

    Peccato non abbia affatto talento del romanziere. 

    40. Naufraghi di un finitimo limitare, 

    dalle zattere invochiamo guarigione ma la risacca, ahimè, è troppo forte. 

    Sperar però nessun ci toglie che 

    l’invenzione escogiti una cura almeno un poco più umana 

    che men conduca alla di dentro morte. 

    41. Suor Guglielmina, in corridoio insegue le infermiere 

    a cronometrare in quanto tempo il pavimento si va a pulire, fioriere a rinvasare. 

    Io sono qui impiccata a letto che prego inutilmente un poco d’acqua, 

    della bellezza artata da loro procurata non me ne curo ché 

    in simile luogo è solo una bestemmia all’assistenza. 

    42. Malinconie da manicomio, 

    le nostalgie che avete voi a paragone sono brodaglia lasca, 

    questo aguzzo sentimento di utilità smarrita 

    di mondo che, proseguendo, sorpassa, ci sovrasta, spicca 

    e tu fra quattro mura spesse passisci, muori 

    in generale indifferenza di chi ti salva, di chi ti cura. 

    43. Morto, rimorto, smorto quotidiano 

    seccato come tra il fieno i fiori 

    scandito dalle usuali rotte del mansionario 

    e dalle logoranti, ripetenti stranezze di malattia. 

    44. Amo la terra che se acqua versi beata se la sugge 

    dalla bocca scura. 

    Io sono qui che broda bevo usando il mio cucchiaio 

    ma poi soltanto quello reggo 

    per consumar contorni, secondi, carni. 

    Persino il pasto qui in manicomio 

    inno è librante alla nostra diversità. 

    45. Io son da Ala ed amo filosofare 

    come in cartella, papello mero di condanna, ci sta ben scritto. 

    A volte inquieto, mi devono sedare quando ripenso a Dio 

    più grande d’ogni mio pensiero eppur pensato 

    com’ente finito, ragionato. 

    Se escludiamo la cattiveria ci resta la bontà 

    e contemplata quella 

    chi ha gioito le spalle mie di un simile fardello a caricare? 

    Iddio pensare, io penso, è allora un pallido affare d’impotenza. 

    © Ilaria Collini e iltrentinonuovo.it

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