“Io son colui che libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta”. Nel primo canto del Purgatorio, Virgilio presenta Dante a Marco Porcio Catone l’Uticense quale cercatore di libertà. Due secoli più tardi, ciò che Dante mise in bocca a Virgilio avrebbe potuto benissimo essere pronunciato da Thomas More (in italiano: Tommaso Moro; 1478-1535) che fu Lord Cancelliere di re Enrico VIII e da questi consegnato al boia perché si era rifiutato di riconoscere l’annullamento del matrimonio del re da Caterina d’Aragona. Thomas More che fu decapitato nella torre di Londra il 6 luglio 1535, è stato riconosciuto “santo della Chiesa cattolica” da papa Pio XI nel 1935.
Agli “ultimi pensieri di Tommaso Moro”, Joseph Tassone dedica un pamphlet di rara scrittura e di ricercato fraseggio. Edito da ViTrend (la casa editrice del settimanale “Vita Trentina”, 10 euro) prende il titolo “Sabbia sul marmo” da una frase attribuita allo stesso Thomas More: “Gli uomini, se qualcuno gli fa un brutto tiro, lo scrivono sul marmo, ma se qualcuno gli usa un favore, lo scrivono sulla sabbia”. Come dire: temi la vendetta, dimentica la riconoscenza. “Questo lavoro – scrive Giorgio Antoniacomi nella postfazione – parla allo spirito ambivalente del nostro tempo”.
Nato in Francia nel 1980, vissuto in Calabria (laureato in giurisprudenza a Messina, abilitato alla professione di avvocato) Joseph Tassone è uomo di lettere (lo testimonia la maturità classica) e uomo di meditazione. In questo favorita (?) dalla professione di capoufficio dei servizi funerari del comune di Trento, a contatto quotidiano con la morte (degli altri) e col respiro del dolore. Per tale ragione gli deve essere stato facile, sempre che sia possibile, immedesimarsi nel pensiero di quel fine umanista, pensatore e uomo politico che fu Thomas More, decapitato per la sua coerenza di cattolico romano. Il quale, secondo il “Vangelo di Tassone”, nell’ultima notte da vivo, compie un esame di coscienza. E lo mette per iscritto su un fazzoletto di carta, usando del succo di limone come inchiostro simpatico.
Quell’esame dei 7 vizi dell’uomo, riconosciuti come peccati capitali (come 7 sono le virtù e 7 sono i sacramenti), Thomas More li ripercorre nella cella della Torre di Londra. Come un’Eco del “Nome della rosa”, Joseph Tassone affida gli ultimi pensieri del celebre morituro alla figlia Margaret Roper la quale, secondo la trama, avrebbe dovuto consegnare il fazzoletto a Cecily Heron, la più giovane delle sorelle. Che non fece e che, scoperto l’arcano del fazzoletto e trascritto il contenuto, al tramonto della sua propria esistenza (come Adso da Melk) lo affidò a un editore “perché dopo averne continuata l’opera e il nome” ne continuasse lo spirito. Cinque secoli dopo, tra i cenotafi di un cimitero cittadino, tra i marmi levigati e non, Joseph Tassone riprende il filo di un discorso interrotto dalla mannaia del boia della Torre di Londra. E rispolvera la sabbia, ne riaggrega i granelli e scrive quest’opera. Che lo colloca tra le penne più illustri. Con il solo peccato, a lui attribuito. Della sintesi estrema. Come l’unzione. Per prolungare l’estasi (o l’agonia, fate voi) del lettore. Perché, il nostro, prestando la penna a Thomas More nel capitoletto sull’Avarizia scrive che “la morte merita d’esser ricordata in vita, ma la vita vale poco ricordarla in morte”. “Sabbia sul marmo” ne recupera la morte e la memoria. Come un “guardiano del cimitero” ne prolunga la vita.
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