La recente inaugurazione della mostra “Arte e fascismo” al MART di Rovereto, invita a spingere lo sguardo verso l’esplorazione del sempre complesso rapporto fra l’espressione artistica e i regimi autoritari del Novecento. Per addentrarci in una così vasta e complicata materia, proveremo ad avvalerci dell’esempio rappresentato da un volumetto curato da Fortunato Depero, il grande pittore trentino, pubblicato nel 1943 per conto del Fascio di Trento, sotto il titolo: “A passo romano. Lirismo fascista e guerriero, programmatico e costruttivo”.
Il libro, che raccoglie alcuni saggi allora inediti e altri testi già noti al pubblico del tempo, pare avere i profili di un contributo alla mistica fascista e, soprattutto, inneggia a quel “passo romano”, introdotto da Mussolini nel 1938, in occasione delle celebrazioni per il 15.mo anniversario di fondazione della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale (MVSN). Presentando il “passo romano”, in uno dei suoi discorsi tanto roboanti quanto vuoti, il duce afferma che “è un passo che ha stile difficile e duro; che esige preparazione e allenamento: per questo lo vogliamo. È un passo che i sedentari, i panciuti, i deficienti, le cosiddette mezzecartucce non potranno mai fare. Per questo ci piace. Per questo lo abbiamo adottato.” (Discorsi del duce – 1 febbraio 1938 – tratto da “L’Italia coloniale” di A. Alpozzi – Canale Telegram).
Al capo del fascismo, insomma, quel “passo” piace proprio tanto, al punto che, nella prefazione agli “Atti del Gran Consiglio del Fascismo” redatti in occasione del primo quindicennio della dittatura, ritorna sull’argomento scrivendo: “… l’innovazione del passo romano è di una importanza eccezionale!”, dimostrando in tal modo tutto l’effimero e il vuoto che si cela dietro la tronfia apparenza della retorica mussoliniana. Forse è proprio nella ricerca del compiacimento ad ogni costo del “capo” che va quindi ricercata la ragione delle paginette di Depero, il cui unico valore è rappresentato dall’esibizione di un ossequio che caratterizza in genere la relazione fra arte e regime nelle dittature del “secolo breve”.
Nel rapporto con l’arte, in un primo tempo e dopo l’avvento al potere, il fascismo non esercita uno stretto controllo sull’espressione artistica nelle sue molteplici forme e solamente con il consolidamento della dittatura l’artista viene chiamato al dovere di esaltare gli ideali di forza, arditezza, lungimiranza e patriottismo che costituiscono l’essenza dell’erigendo mito del duce prima e dell’impero poi.
Il corpo, il volto, la fronte corrucciata, la mandibola prominente e volitiva, il cranio rasato e lucido come un elmetto, diventano elementi caratteristici di una trasfigurazione del duce che non compone più un ritratto, bensì una somma di valori come il pensiero, la forza, il coraggio, la volontà e la virilità che sono alla base della mistica fascista e di un’estetica sempre più di Stato e di regime.
Ma torniamo al volumetto elegiaco di Depero. Anch’egli, come larga parte degli artisti del “Ventennio”, vede nel duce l’incarnazione stessa dell’idea fascista e l’anello di congiunzione fra la nazione ed il suo popolo. È sull’onda di tali convincimenti, che all’epoca esercitano una formidabile fascinazione sugli italiani, che Depero pubblica il citato volumetto dove, fra pagine osannanti il fascismo e il nazismo, l’autore, in un eccesso di piaggeria, definisce Mussolini come “maglio modellatore, simbolo di potenza mondiale”, in un crescendo apologetico gonfio solo di servilismo. Quelle pagine, scandite dal “passo romano” ci svelano però anche una delle funzioni dell’arte, sotto il fascismo, ovvero quella di porsi al servizio del sogno mussoliniano di potenza e di potere, sostenendo l’impalcatura retorica del regime, che non insiste sull’arte in quanto tale, bensì sulla sua funzionalità appunto in termini di propaganda e di didattica del consenso. Nel caso specifico poi del libriccino che ci ha offerto il destro per queste minime riflessioni, va aggiunto forse che il pittore ha necessità ben più prosaiche di quelle delle dissertazioni sull’arte. Egli chiede, ad esempio, l’istituzione a Trento e a guerra conclusa, di una “officina d’arte” a lui affidata, quale riconoscimento dei molti meriti accumulati nei confronti del regime. Insomma, ben venga il peana e la grottesca esibizione e celebrazione del “passo romano”, pur di ottenere qualche prebenda, secondo esigenze non tanto di libertà dell’artista, quanto piuttosto di ottenere nuovi lavori e commesse pubbliche. Depero – e con lui molti altri – genuflette la sua arte a servizio del fascismo, pronto però a metterla al servizio di chiunque altro gli garantisca commesse e denaro tanto che, nella sua difesa contro le accuse di militanza fascista e repubblichina perorata nel dopoguerra davanti al C.L.N., si dichiara disposto, per denaro, a farsi interprete perfino del “realismo socialista”.
Nelle dittature tutto – e quindi anche l’arte e l’artista, come dimostra Depero con questa pubblicazione e con la trasmissione radiofonica da lui curata l’anno precedente sotto il medesimo titolo – viene sottomesso alle necessità del potere e della propaganda. Basti qui ricordare il trionfo, dal 1934 in poi e durante tutta la dittatura di Stalin, del “realismo socialista” che, secondo il pensiero di Mak’sim Gorkij suo esponente di grande rilievo, deve spingere l’arte ad avere “forma realista e contenuto socialista”. Ma torniamo in Italia.
Con l’arte, il fascismo ha quindi un rapporto complesso. Mussolini sa che non può farne a meno, ma sa anche di dover diffidare, con qualche ragione, degli artisti che ritiene sempre pronti a salire sul carro del vincitore. E così il regime governa l’arte da un lato con imposizioni e regole alle quali l’artista deve uniformarsi, ma anche con onori e riconoscimenti, come ad esempio quelli rappresentati dalla nomina nell’“Accademia d’Italia”. Ciò che conta, per il regime, non è solo l’adesione formale e silente degli artisti e degli intellettuali, ma anche, ad esempio, il loro sostegno a quell’idea di “romanità imperiale” che tanto affascina il duce e comunque, più in generale, alla retorica e alle menzogne che la nutrono.
In questo contesto di “bastone e carota”, esiste però anche un margine minimo di innovazione, con lo sviluppo di movimenti di pensiero come il “razionalismo” e il “monumentalismo” in architettura o nella pittura dove, dall’iniziale favore verso il futurismo, si giunge poi al divisionismo e a una pittura figurativa più tradizionale, che si identifica con il “ritorno all’ordine” e il “realismo magico”. Una sommessa apertura insomma che, ad esempio, nel 1934 porta Renato Guttuso, totalmente estraneo all’ideologia fascista, a concorrere al “Premio Bergamo”, voluto dal Ministro alla Cultura Bottai, oppure favorisce la crescita e l’affermazione di grandi “firme” come Sironi, Balla, De Chirico, Morandi, Fontana e pure lo stesso Depero.
Quest’ultimo però, a differenza d’altri, è convintamente fascista, al punto che, insieme al suo mentore Marinetti, verso la fine del conflitto si schiera, non solo con la R.S.I., ma addirittura con il nazismo. È proprio quest’ultima opzione ideologica che dimostra quanto poco capisca di politica. Mentre, improvvidamente, dà alle stampe una celebrazione del “passo romano” e con essa del fascismo “a prescindere”, il regime sta giungendo al suo capolinea storico.
Infatti, solo poche settimane dopo l’uscita di quelle pagine, il “Gran Consiglio” decreta la caduta del duce e del fascismo, ponendo di fatto fine a un regime liberticida, assassino e criminale, capace di condurre il Paese nel baratro della guerra civile e scavando fratture che tutt’oggi stentano a ricomporsi, anche per una evidente assenza di rilettura della storia nazionale e dei suoi non pochi errori.
Arte e dittatura vanno d’accordo solo dentro una dimensione di servilismo propagandistico della prima nei riguardi della seconda. Il che non pregiudica comunque la possibilità di emersione di qualche espressione artistica di grande pregio e valore, ma comunque, comprimendo il pensare scevro da vincoli e limitazioni, limita la stessa creatività per un’arte libera. Al di là di ogni altra considerazione è infine questo che rappresenta il vero male che si cela dentro ogni regime autoritario. Un male che piega l’individuo, impedendogli di prendere il volo sulle ali del pensiero e rendendolo così suddito e schiavo, anziché cittadino.
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