Antisemitismo e senso di Nazione – Nel 1749 Gotthold Lessing (Kamenz 1729 – Braunschweig 1781), scrittore, filosofo, drammaturgo e forse il principale esponente dell’“Aufklärung”, cioè l’illuminismo germanico, dà alle stampe il primo dramma sociale scritto in tedesco: “Die Jüden” (“Gli Ebrei”). Si tratta, senza dubbio, di un testo originale, anche perché prova a dimostrare l’infondatezza del pregiudizio sull’avarizia e la cattiveria dei “figli di Israele”; un testo che nasce nella solida amicizia del filosofo con Moses Mendelssohn (1729 – 1786), pensatore e scrittore ebreo tedesco, anch’egli esponente di spicco del “pensiero nuovo” e padre dell’“haskalah”, ovvero del particolare filone dell’illuminismo ebraico.
Mendelssohn è un intellettuale di straordinaria profondità. Afflitto da una fisicità gracile e irrimediabilmente compromessa, egli concentra ogni sforzo sul piano intellettuale fino a diventare uno strenuo difensore della cultura tedesca e della lingua germanica. Al contempo affronta i nodi della sua epoca come la tolleranza religiosa, l’immortalità dell’anima, la “religione naturale” e l’esistenza stessa di Dio. Le sue riflessioni, seppur contrastate da personaggi come il pastore svizzero Lavoter, gli fruttano ben presto un prestigio forte e generale, che gli permette di insistere sulla concessione dei diritti civili per tutti gli ebrei d’Europa, di preconizzare la laicità dello Stato e la soppressione dei diritti politici e giurisdizionali per le Chiese. Mendelssohn è, insomma, uno dei protagonisti della fertile stagione illuministica sul suolo tedesco e solo con la sua scomparsa si viene a chiudere l’epoca prekantiana e con essa ogni attenzione e sensibilità verso gli ebrei. Da quel momento in poi le costruzioni concettuali del pensiero di Kant prima e di Fichte ed Hegel, padre della concezione dello Stato nazionale, riprendono ad essere viziate da un evidente astio antiebraico.
È proprio Johannes Amadeus Fichte (1762 – 1814) che più d’altri spinge in direzione dell’espulsione di tutti gli ebrei dal suolo germanico perché “inquinatori” dell’aspirazione unitaria di tutti i tedeschi, mentre elabora quel “Discorso alla nazione tedesca” che rappresenta l’avvio delle teorie pangermaniste che daranno conto di sé nei due secoli successivi.
Negli anni in cui si sviluppa l’idea dell’unità nazionale, l’area tedesca è divisa in decine di principati, regni e staterelli ed è complessivamente una geografia arretrata e vittima di forti ritardi sociali ed economici, soprattutto se paragonati a ciò che sta accadendo, in contemporanea, in Francia, Gran Bretagna e nei Paesi Bassi. Su quest’orizzonte si staglia il profilo saldo del luteranesimo che, appropriandosi di molti principi illuministici, adatta la lettura biblica ai nuovi tempi anche per seguire le volontà dei principi tedeschi che sostengono l’illuminismo e ne assecondano lo sviluppo, purché dentro una dimensione di prudenza e di controllo del potere sul pensiero e le sue evoluzioni.
Si tratta dell’applicazione di una delle fondamentali lezioni di Lutero, ovvero quella della virtù dell’obbedienza per ogni buon tedesco, in cambio delle beatitudini della vita spirituale e della venuta del regno di Dio. Nasce così l’imperativo della perfezione assoluta ed una nuova idea di morale, pronta a sostituire sia quella della ricompensa terrena delle virtù (la morale ebraica), sia quella dell’immortalità dell’anima come premio per una vita virtuosa (la morale cattolica). Per Lutero, la ricompensa divina sta raccolta dentro il senso del “dovere assoluto” e quindi della sottomissione del singolo al gruppo ed al potere, foss’anche quello della peggiore tirannia.
Su quest’insieme etico si inserisce la figura di Federico il Grande, re di Prussia che, attraverso l’espansionismo militare e la conseguente sottomissione dei nuovi sudditi conquistati, costruisce quell’embrione di idea nazionale tedesca, poggiata appunto su una comune visione e su una comune lingua, che darà origine al Reich, ovvero all’imperialismo prussiano e germanico. Un mondo “puro” quindi e che non può essere contaminato da presenza “estranee” com’è appunto quella ebraica, perché in tale contaminazione la stessa idea nazionale, fondata sulla comunità di uguali ed identici, troverebbe il suo evidente esaurimento.
In questo quadro complesso, l’illuminismo tedesco, al principio, non è pregiudizialmente antisemita ed anzi alcuni pensatori, come Lessing, si sforzano di cercare nell’ebreo “l’uomo che deve pur risiedervi”. Attraverso il teatro e la letteratura provano a riscattare gli ebrei dalla loro condizione di reietti ed emarginati.
È insomma un clima di contrasti fra chi persegue ideali di inclusione e chi invece si ostina nell’esclusione degli ebrei dalla vita nazionale tedesca che la comunità ebraica germanica comunque cresce e prospera economicamente, anche appoggiando le imprese belliche di Federico il Grande. Sorgono in quest’epoca le immense fortune dei Levy, dei Markus, degli Itzig a dimostrazione di come una minoranza sociale disprezzata può compensare la propria emarginazione con la potenza del denaro e l’arte degli affari, così come già accaduto secoli prima e sempre in Germania con gli Hofjüde”, gli “ebrei di corte”.
Ricchezza e lusso influiscono anche sui costumi. Molti ebrei si distaccano dalla Legge di Mosè, affidandosi alla nuova “religione” del talento e del denaro, nonostante gli anatemi dei rabbini e le diffidenze degli ebrei rimasti nella fede dei Padri. È una sorta di “età dell’oro” quella che si vive nei salotti ebraici berlinesi, dove nasce il romanticismo tedesco, il culto di Goethe e soprattutto il moderno spirito nazionale tedesco, nel quale gli ebrei si riconoscono rapidamente, sentendosi da subito parte di questa “nazione nuova” che va edificandosi nel cuore dell’Europa. Ma i vecchi nobili e latifondisti prussiani, rigorosamente luterani e quindi antisemiti, che vivono nel mito federiciano dell’esercito e guardano con sommo disprezzo a questi “parvenù” alimentano l’antica ripugnanza per gli ebrei, come dimostra un passo di una lettera del generale Gneisenau al feldmaresciallo Blücher, laddove il primo scrive: “[…] Con il tempo la nobiltà sarà rovinata dagli ebrei e dai loro fornitori di merci che prenderanno il nostro posto e poi diventeranno “pari” del regno. Questo scandalo giudaico mi rivolta lo stomaco come tutti i cattivi costumi di questo secolo, dove si va al banchetto anche se l’ospite è corrotto fino al midollo delle ossa, come appunto gli ebrei.” Gli Junker prussiani sono quindi gli incubatori del ritrovato “Jüdenhass” (“Odio per gli ebrei”), che diventa quindi ulteriore elemento collante della nazione tedesca e sul quale si ritrovano le classi borghesi ed imprenditoriali della società tedesca unitaria che va componendosi.
Questi sentimenti in breve si fanno strada anche nel popolo che, ancora una volta, identifica gli ebrei, non solo come i ricchi strangolatori della povera gente, ma anche come i corruttori dell’idea nazionale tedesca. Nel 1798 una Commissione reale chiamata a valutare il riconoscimento dei diritti civili agli ebrei respinge ogni ipotesi in tal senso e chiude qualsiasi prospettiva di inclusione. Gli ebrei non appartengono alla nazione germanica e ne costituiscono anzi un pericoloso tarlo. È dalla comprensione di questa realtà, del tutto unica e particolare in Europa, che discende il rinnovarsi di quell’antisemitismo tedesco, dal quale uscirà poi tutto l’insensato odio hitleriano e la tragedia della Shoah.
(12 – continua – Le precedenti puntate sono state pubblicate in rete il 22, 27 settembre; 5, 11, 21, 27 ottobre; 6, 12, 21 novembre, 9 e 19 dicembre 2021)
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