Ferragosto si è portato via una leggenda del calcio. Che aveva vinto tutto ma che, giusto dieci anni fa a Trento, aveva perso la memoria. Non si è dimenticato di lui Carlo Martinelli, raffinato cultore di cultura e non soltanto sportiva.
Se ne è andato oggi, Ferragosto, a 75 anni. Ma forse Gerd Müller, leggenda del calcio mondiale, se ne era andato dieci anni fa, nel 2011, per le strade di Trento, in una calda giornata di luglio. 17 luglio, per la precisione. La tuta da ginnastica, la barba un po’ incolta e, soprattutto, lo sguardo perso, assente, spaurito. A guardare – e non vedere – i carabinieri che lo avevano fermato in viale De Gasperi. Veniva da una notte senza memoria, triste camminare senza meta di un uomo di 65 anni, i capelli bianchi, lo sguardo spaurito. Gerd Müller era a Trento come dirigente accompagnatore dell’Under 23 del Bayern Monaco, la squadra in cui ha giocato dal 1964 al 1979. Alle tre di notte lascia l’albergo che ospitava la squadra, a Villa Madruzzo. Non torna e lo cercano a lungo. Quando lo trovano sono le diciotto. È a chilometri di distanza, a sud della città. Non si sa come abbia riempito quelle lunghe quindici ore, quali pensieri abbiano percorso la sua testa. Da quel giorno la sua vita sarà fatta di entrate e uscite da istituti specializzati. Ma il destino era segnato: qualcosa si era spezzato per sempre dentro uno dei più grandi attaccanti della storia del calcio. 68 gol in 62 partite della sua Nazionale. Compreso quello che nel 1974 portò la Coppa del Mondo di calcio alla Germania dell’Ovest. Il suo formidabile fiuto del gol, la sua rapinosa capacità di trasformare in oro (gol) tutto quel che toccava (palloni) si confermò anche nella finale contro l’Olanda dei sogni di Johan Cruijff, l’Arancia Meccanica di una utopia calcistica che si scontrò (e perse) contro il pragmatismo teutonico, di cui proprio lui, Gerd Müller, era alfiere, insieme a Franz Beckenbauer. Una vita nel Bayern, fino alla fine. La società gli ha pagato anche questi ultimi tristi dieci anni, passati da una clinica all’altra, da un istituto all’altro, in un ovattato silenzio, rispettoso. Il rispetto dovuto a chi ha segnato 730 gol in 788 partite, Pallone d’oro, campione del Mondo, campione d’Europa, 3 Coppe dei Campioni, 1 Coppa delle Coppe, 1 Coppa Intercontinentale, 4 scudetti, 4 Coppe tedesche. Capocannoniere sempre. Anche quando, in quel caldo pomeriggio di Trento, nessun documento in tasca, lo sguardo cercava negli sguardi degli altri una risposta che non avrebbe saputo comprendere. Era uno dei più forti giocatori di tutti i tempi, amato e osannato come pochi. Ma a Trento, in quelle quindici ore passate a girovagare per la città, tutto gli si era cancellato, dentro. A nessuno passò per la testa di chiedergli un autografo. I carabinieri prima, i dirigenti del Bayern poi, accorsi dall’albergo che aveva abbandonato nella notte, gli si strinsero attorno, come succedeva con i compagni di squadra, dopo uno dei suoi tanti gol. Questa volta sì, ha più senso dirlo: riposi in pace.