Compie 70 anni il 19 giugno, Francesco Moser, il più noto dei quattro fratelli “corridori” (con Aldo, Enzo e Diego) che dagli anni Cinquanta del secolo scorso hanno pedalato sulle strade del mondo e dato lustro a una famiglia di contadini, a Palù di Giovo, il loro villaggio.
Una famiglia contadina, una dinastia della fatica. Con due ruote ha dato alla Valle di Cembra una notorietà internazionale e al ciclismo italiano ben quattro campioni. Solo mettendo in fila le maglie rosa del Giro d’Italia, si arriva a 82. Di queste, 2 sono state indossate da Aldo, il capostipite, l’enfant de pays, il primo a irrorare di sudore le vigne di schiava e le strade sterrate della Val di Cembra. Due maglie le indossò Enzo; 58 sono finite sulle spalle di Francesco, il più noto anche perché titolare per nove anni del record dell’ora conseguito a Città del Messico (km. 51.151) nel 1984. Infine, la maglia rosa fu indossata per venti volte da Gilberto Simoni, nipote acquisito dei Moser.
Francesco, il pluridecorato di Palù: 273 vittorie, il ciclista italiano con il maggior numero di successi, quinto a livello mondiale. Tre vittorie consecutive alla Parigi-Roubaix (1978-1979-1980). Campione del mondo su pista (1976), campione del mondo su strada (San Cristobal, Venezuela, 4 settembre 1977). Doppio record dell’ora: 51.151 a Città del Messico nel 1984. Quell’anno aveva vinto anche il Giro d’Italia (10 giugno).
Cecilia, sua mamma, se ne stava tutta sola, nella penombra della chiesa di San Valentino, a Palù, inginocchiata nel banco di metà navata. Sussurrava parole ed erano orazioni. Il cronista si avvicinò lentamente, senza far rumore. Si inginocchiò vicino a lei e avviò il “Nagra”, il registratore professionale in dotazione alla RAI. “Ses vegnù su anca ti”?, domandò la donna. “Cognévo”, rispose. “Diséo orazion parché el Francesco el vincia” [Dovevo. Dite orazioni perché Francesco vinca?] “No, parchè no ‘l se faghia mal. Anca i altri corridori in gha a casa ‘na mama che la voria che fussa so fiol a vencer. No pol esser sempro el mio che finisce la gara par prim”. [No. Prego perché non si faccia del male. Anche gli altri ciclisti hanno a casa una mamma che vorrebbe, una volta tanto, che il proprio figliolo vincesse. Non può essere sempre il mio a tagliare per primo il traguardo”.
Cecilia Simoni, vedova di Ignazio Moser, la Cila dei Soni, era fatta così. Buona e generosa. Devota della Madonna di Fatima, aveva trasferito a tre dei suoi figli il nome dei pastorelli della Cova di Iria: Giacinta, Francesco e Lucia.
Domenica 13 aprile 1980. In quel pomeriggio assolato, Palù di Giovo era un villaggio deserto. Dalle abitazioni si spandeva nell’aria di primavera la telecronaca di Adriano de Zan (1932-2001), da Roubaix, nelle Fiandre. Commentava con accenti epici la corsa di Francesco da Palù sul pavé della Regina del Nord. Sarebbe stata la terza vittoria consecutiva di una gara massacrante che ha sempre messo a dura prova i corridori. Soprattutto i campioni. Quel pomeriggio di domenica 13 aprile 1980, Francesco Moser compì la corsa di 264 chilometri in 6 ore 7’ e 28” alla media di 43,106 km/h. Per molto tempo si disse che Francesco Moser aveva quale rivale, anzi “nemico”, il belga Eddy Merckx (1945). Pronunciarono giudizi l’un dell’altro poco diplomatici; si levarono e ripresero la maglia gialla del Tour de France. Fu soprattutto una faccenda di tifoserie, come ai tempi di Bartali e di Coppi. L’uno, Merckx, di estrazione borghese; l’altro, Moser, di famiglia contadina. Due grandi campioni, comunque.
Se non avesse fatto il ciclista, “Checco” Moser avrebbe potuto essere un discreto campione dello sci: “A volte penso che, se avessi avuto l’occasione buona, come discesista sarei entrato nel giro della Nazionale”.
Francesco Moser si è ritirato dalle gare nel settembre 1978, dopo aver partecipato al Trofeo Baracchi. Ha continuato a seguire il ciclismo, ospite di trasmissioni televisive. Divenuto imprenditore, della bicicletta prima, del vino poi, non ha saputo resistere alle sirene della politica. Grazie alla sua notorietà, il Partito Autonomista lo ha fatto eleggere consigliere provinciale e regionale nell’undicesima legislatura (1993-1998). Vicepresidente della giunta regionale e assessore alla cooperazione, è stato anche assessore provinciale al turismo, commercio e sport (1997-98).
Con le sue biciclette, Francesco Moser ha fatto un museo. Vi figura pure la “talianèla”, la bicicletta usata dai bersaglieri nel corso della Grande guerra (modello Bianchi 1912) e una Torpado da corsa 1951 (“del temp che ha scominzià l’Aldo, ma no l’è la sua”). Lo ha ricavato in uno degli stabili del maso, a villa Warth, a Gardolo di mezzo, 36 ettari di vigneti, produzione di bianchi e di rossi, con uno spumante metodo classico dall’etichetta inconfondibile: 51.151, come i chilometri del record dell’ora di Città del Messico.
“Ho portato le ruote della mia bicicletta ai confini della terra, ma senza mai dimenticare da dove arrivo. Mi è sempre piaciuto paragonare Palù a un gradino: non puoi muovere un passo senza andare in discesa o in salita. Così, fin da piccoli, noi paludèri ci abituiamo alla fatica, anche se ci basta alzare gli occhi per rinfrancarci. Non importa fin dove sono arrivato, sono sempre tornato qui. Dopo ogni vittoria, come dopo ogni sconfitta. Il centro del mio mondo è in Trentino”.Così, Francesco Moser (1951) nel lungometraggio sulla sua carriera, firmato da Nello Correale, intitolato “Scacco al tempo” (Filmwork), presentato a Trento il 2 maggio 2018 nell’ambito del Festival dei film della montagna. In una delle innumerevoli interviste, dichiarò alla RAI: “L’importante è vincere, il resto non conta”.
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