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    Storia&Storie

    Terrorismo, orrore ripetitivo (1)

    Renzo FracalossiBy Renzo Fracalossi18 Ottobre 2024Nessun commento7 Minuti di lettura
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    A un anno da una delle più tragiche e orribili esibizioni del terrorismo, scatenatasi con una violenza esponenziale il 7 ottobre 2023 con morti, feriti e ostaggi israeliani il cui destino è ancora drammaticamente incerto, il terrore torna ad affacciarsi sulla soglia dell’inferno. Un racconto, in più puntate, del terrore che ha attraversato la storia recente dell’umanità. 

    Il terrorismo non è una invenzione della modernità. Esso infatti ha sempre accompagnato i momenti di grande trasformazione, con attentati, spedizioni punitive di organizzazione eversive, uccisioni di civili inermi, azione di singoli “lupi solitari” o progetti pianificati ed eseguiti da cellule di fanatici ed esaltati assassini. Oggi assistiamo, sempre più sgomenti, alla ripresa di un diffuso clima di odio generalizzato che sta erodendo il nostro tempo, preludendo a scenari oscuri. Molti reputano si tratti del risultato di una decadenza morale; dello smarrimento dei valori dell’umanesimo e dell’invasività tecnologica e che, pertanto, l’atto terroristico, quale arma di lotta politica, sia figlio di questo tempo malato. Purtroppo non sembra affatto essere così.

    Le “Torri gemelle” dell’11 settembre 2001 e i massacri del 7 ottobre 2024 rappresentano, in avvio del terzo millennio, l’alfa e l’omèga di un crescendo di intolleranze e rancori politici messi in scena, spesso, su fondali di carattere religioso. Si tratta della versione moderna e tecnologica di meccanismi antichissimi, che compongono il grande e tragico affresco del terrore e delle sue fenomenologie. La gamma del terrore, usato a fini politici, è assai composita e va dal terrorismo a favore dello Stato a quello di Stato; dal terrorismo contro lo Stato a quello indipendentista e separatista, che punta a dar vita ad un nuovo Stato e poi ancora il terrorismo di matrice religiosa, quello alimentato dalle paranoie complottiste, quello riferito ai più strani settarismi e via elencando.

    Comprenderne le cause ed i processi può aiutare a profilare un fenomeno che ha lasciato – e lascia tutt’oggi – la sua impronta criminale nella storia ad ogni latitudine ed in qualsiasi geografia umana.

    Il terrorismo è anzitutto un “corto circuito” che, almeno nelle intenzioni dei suoi autori, siano essi organizzazioni o Stati, consentirebbe di saltare alcune tappe dello sviluppo politico e storico. In altre parole, il terrorista ritiene che il mezzo da lui scelto per “fare politica” è sicuramente più rapido e più immediato, rispetto ad ogni altra modalità politica come il dibattito, la persuasione, l’agitazione, il confronto fra idee, la propaganda ed infine, il voto. Questi sono strumenti “lenti” e che necessitano di tempi ai quali il terrorista non vuole – o forse non può – adeguarsi, rapito com’è dall’urgenza di affermare, ma soprattutto imporre, il proprio punto di vista, in modo autoritario e segnato da una coatta realizzabilità.

    Per tale ragione, l’atto terroristico in sé, oltre ad una funzione dimostrativa e deterrente, mira a “convincere” i destinatari del suo messaggio – che non sono le vittime, bensì gli spettatori – della forza e della verità intrinseca del proprio modo di “fare politica”.  Ma il “corto circuito” comporta spesso effetti collaterali a quelli voluti, come ci ricorda, a puro titolo di esempio, il terrorismo nichilista e populista russo a cavallo fra il XIX ed il XX secolo. Gli attentati allo czar puntano a dimostrare al popolo che lo Stato è vulnerabile e quindi rovesciabile. L’effetto ottenuto però è quello invece di una diffusa demoralizzazione e paura che lascia il popolo attonito, inorridito ed incapace pertanto di sollevarsi contro il dispotismo zarista. Per tale ragione quel terrorismo fallisce i suoi obiettivi e la tradizione marxista-leninista impara subito la lezione, rifiutando il ricorso al terrorismo declinato secondo una simile tradizione. Un terrorismo che sbaglia clamorosamente i suoi fini e che fallisce nella più evidente solitudine, così come è avvenuto, nella seconda metà del Novecento, in altre forme come quelle del brigatismo rosso, sia in Italia come in Germania, incapace di creare collegamento con le masse e quindi soggetto ad un isolamento che porta alla sconfitta.

    La strategia del terrorismo si basa, in linea di massima, su tre elementi fondamentali: 1) la sproporzione di forza fra le parti; 2) l’azione di gruppi relativamente piccoli, per mantenere i vincoli di segretezza indispensabili all’agire terroristico; 3) il rapporto fra mezzi limitati e risultati clamorosi, come evidenzia appunto l’orrore delle “torri gemelle” e quello del 7 ottobre 2024 e le conseguenze che si innescano in termini di reazione. Quest’ultimo carattere sottolinea come l’azione del terrore non risiede in un singolo atto estemporaneo – che invece appartiene spesso alla “follia” individuale o di un gruppetto di esaltati – bensì in un fenomeno politicamente significativo e di lunga durata, come dimostra la pluridecennale esperienza nordirlandese dell’I.R.A. o quella basca dell’E.T.A., nel XX secolo.

    Per meglio comprendere, valga un esempio. L’attentato omicida nel quale muore il re d’Italia Umberto I è un evento singolo, slegato da ogni contesto organizzato di lotta e solo ideologicamente collegato all’anarchismo. Gaetano Bresci, l’attentatore, uccide il re in quanto simbolo dell’oppressione di un potere, non meglio identificato, su di un altrettanto vago profilo di popolo. Ben diverso è l’impegno terroristico degli assassini dello zar Alessandro II. Quell’attentato, che rappresenta il culmine di una lunga teoria di tentativi simili, mira all’obiettivo politico del rovesciamento dell’autocrazia e quindi ad una trasformazione radicale dello Stato e delle sue forme di potere.

    L’altro elemento da tenere sempre in considerazione, nell’analisi del rapporto fra violenza e politica, è quello della scelta dell’obiettivo. Si tratta di un elemento contraddistinto da tre modelli specifici, ovvero quello punitivo, quello selettivo e quello indiscriminato. Nel primo caso, il terrorismo agisce in veste di “giustiziere”. L’esplosione che uccide il primo ministro spagnolo Luis Carrero Blanco nel 1973 ad opera dell’E.T.A.  basca, comunica allo Stato che si è in grado di colpirlo nelle sue massime istituzioni e segnala alla popolazione che il livello organizzativo terroristico è in grado di compiere qualunque impresa e, al contempo, mette in luce una funzione “giustizialista” sommaria, ma non per questo meno efficace.

    Nel secondo elemento, cioè quello selettivo, la scelta terroristica coinvolge un numero più alto di vittime, considerate almeno rappresentanti se non proprio protagonisti di quella posizione politica che si vuole combattere, come testimoniano, ad esempio, i già ricordati attentati nei locali pubblici dell’Irlanda del Nord o il dirottamento aereo praticato dal terrorismo filopalestinese. Le vittime che muoiono in tali circostanze sono comunque la parte ostile, “il nemico” ed il terrorista li considera quindi collettivamente colpevoli, anche se individualmente innocenti.

    Infine, il terzo caso, ovvero quello dell’atto indiscriminato. Quest’ultimo colpisce alleati e avversari senza fare differenza alcuna e punta a creare uno stato di paura ed ansia che sfocia nel panico assoluto, al quale contrapporre, prima o poi, una qualsiasi certezza, come quella che l’ideologia del terrorista propone. In altre parole, il terrorismo neofascista che compie attentati sui treni e nelle piazze dell’Italia degli anni Settanta del Novecento non distingue fra amici e nemici, ma punta ad una “tensione sociale” che nel medio periodo porterà ad invocare “l’uomo forte”, con tutto ciò  che ne consegue, come risposta tranquillizzante rispetto al clima che gli attentati indiscriminati hanno creato nel frattempo.

    Ciò che emerge con chiarezza da questi primi elementi di analisi del fenomeno terroristico è quindi l’uso politico della violenza, intesa quale scorciatoia rispetto a qualsiasi altra modalità pacifica. Il terrorismo denuncia insomma l’interruzione della comunicazione politica, in quanto tale, tra le parti in lotta e quindi traduce l’incapacità di dialogare in un uso spaventoso della morte di innocenti. Nelle prossime puntate, vedremo alcuni esempi, accaduti nei secoli e che meglio aiuteranno la comprensione di un fenomeno antico quasi quanto l’uomo e la sua vicenda.

    (1-continua)

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    Renzo Fracalossi

    Renzo Fracalossi, è nato a Rovereto il 5 luglio 1961. Risiede a Trento dove, dopo gli studi umanistici, lavora nella pubblica Amministrazione. Presiede l'associazione culturale "Club Armonia"; è componente della "Società di Studi Trentini di Scienze storiche" e della S.O.S.A.T. Ricercatore e divulgatore, si occupa da decenni di approfondire e narrare l'antisemitismo e con esso la Shoah e di indagare la storia locale. Collabora con università e centri di ricerca europei su tali questioni ed ha all'attivo alcune pubblicazioni e contributi. È autore teatrale, iscritto alla S.I.A.E., con testi rappresentati in sede locale e nazionale.

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