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    Home»Anniversari&memoria»L’albero delle donne
    Anniversari&memoria

    L’albero delle donne

    Casimira GrandiBy Casimira Grandi9 Marzo 2024Nessun commento5 Minuti di lettura
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    “… Si radunavano sotto un tiglio nella piazza del Duomo, dove nei giorni festivi si recavano coloro che cercavano lavoranti agricoli ed in cui venivano scelte e mercanteggiate nello stesso modo come se si trattasse di bestie. Il compratore, per così dire, gira tra i crocchi, guarda, osserva attentamente (…) L’esame è minuzioso e si estende spesso fino ad opportuni palpamenti per accertarsi che le braccia siano abbastanza grosse ed i muscoli diano sufficiente affidamento di vigore.” Così P. Vecellio, Il fenomeno migratorio nel bellunese alla fine del secolo scorso, Belluno 1984, p. 49. Nell’ambito delle celebrazioni per l’8 marzo, a “l’albero delle ciòde: una memoria opaca”, ha dedicato uno studio e una serata la prof. Casimira Grandi, già docente di Storia sociale alla facoltà di Sociologia di Trento, impegnata nella ricerca e nella conservazione della memoria e del patrimonio culturale europeo. Ne pubblichiamo una sintesi. Anche per richiamare l’attenzione sull’albero delle Ciòde di piazza Duomo, per il quale si teme un incerto futuro. 

    Nel tempo fermo di una società schiavizzata dalle date degli stereotipi il calendario impone di festeggiare la donna l’8 marzo – personalmente festeggio tutti i giorni dell’anno la fortuna di esserlo -, però il profluvio di mimose che porta con sé questa data pare abbia dimenticato le molte robuste bellunesi che hanno sostato sotto il vecchio tiglio trentino in un passato non remoto.

    A Trento nella preziosa cornice di piazza Duomo il patrimonio culturale che produce la memoria identitaria esibisce un singolare monumento vegetale, che dovrebbe essere dedicato al ricordo delle dimenticate ciòde: è lo storico tiglio attorno al quale si radunavano le donne che tra Otto – Novecento offrivano stagionalmente il loro lavoro in agricoltura per rimpiazzare i trentini emigrati, sovente seguite dai minorenni ciodéti e ciodéte. Era forza lavoro marginale arrivata per colmare i vuoti lasciati dagli emigrati trentini, una situazione in cui lo squilibrio demografico così prodotto creava i presupposti di un flusso costituito per circa i quattro quinti da donne – indipendentemente dall’età – e il restante da minorenni impiegati nelle attività collegate al bestiame oppure come servi. 

    La manodopera femminile era ricercata per il minor costo, determinato dalle regole sociali del mercato del lavoro ma non da una diversa potenzialità fisiologica nel lavoro, perché la ciòda era na femena doppia: espressione dialettale per descrivere una donna «ben tarchiata, grossolana, di ciera bianca e rossa, e che mostri d’essere robusta […] Naturalmente, le più ricercate sono le forti ed aitanti; e ciò non già per un senso estetico, come si potrebbe credere, sibbene perché più adatte al rude lavoro della campagna (A. Maresio Bazzolle, Il possidente bellunese, Feltre 1987, pp. 250 e 263). Erano lavoratrici instancabili che svolgevano con facilità i lavori rurali più faticosi, facendo a braccia l’erpicatura e la solcatura, portando a spalla i concimi e i raccolti nelle gerle di vimini loro compagne dall’infanzia alla vecchiaia. E questa è la descrizione fedele delle formidabili montanare bellunesi: ottimi animali da soma che costavano meno dei muli.

    La frontiera Veneto-Trentino era da sempre valicata senza difficoltà quando la neve si scioglieva e prima che tornasse a cadere, sentieri secolari segnavano i tracciati dal bisogno confermando che i confini reali erano quelli della necessità di lavorare altrove per sopravvivere. Nel decennio ottanta dell’Ottocento epocali disastri atmosferici e venti di guerra indussero la costruzione di una rete di comunicazione degna del tempo, furono costruite ferrovie -per chi se lo poteva permettere- e strade che collegavano con relativa sicurezza ricordando l’ingegneria napoleonica. I documenti di espatrio erano alquanto vari, quasi un optional tra sacro e profano per chi era tanto povero da dover partire ma troppo povero per poter partire, magari con un certificato di buona condotta del signor parroco!

    L’organizzazione tradizionale delle ciòde riuniva gruppi di donne – poche erano coloro che partivano autonomamente – in cui l’esperienza di una capa tutelava le compagne senza onere alcuno salvo la spontanea gratitudine delle famiglie, e la sua autorità morale era riconosciuta anche dall’Ufficio Comunale del Lavoro di Trento. É importante evidenziare questo aspetto solidaristico solitamente tra donne appartenenti allo stesso paese, che si consolidava nel tempo e stabiliva rapporti privilegiati per il collocamento delle lavoratrici stagione dopo stagione; non mancavano ovviamente le partenze individuali o i minorenni affidati a persone estranee al flusso ed è importante rilevare che tali situazioni erano quelle che solitamente portavano a maltrattamenti e abusi, come riportato dalla documentazione dell’Ufficio Comunale del lavoro di Trento, in particolare nel suo Libro Nero. Il pudore del dolore mi impedisce in questo scritto di indugiare sui contenuti del citato Libro, che spaziano dagli abusi sessuali su ciòde e ciodéti alle violenze subite da coloro che passavano fortunosamente la notte esposte a tutte le tentazioni della miseria e del vizio. 

    Come non recuperare in queste memorie le tragedie odierne?Il genius loci di piazza Duomo oggi conferma l’albero delle ciòde quale luogo di ritrovo per la varia umanità che il mondo globalizzato continua a disperdere nelle rotte della sopravvivenza, sono uomini donne minori che confluiscono ancora sulle panchine attorno al vecchio faggio sperando in una soluzione esistenziale per avere domani: quanti trentini conoscono questo antico legame? L’uomo si muove perché ha i piedi hanno scritto ed io espliciterei per placare la fame in primis, ancora perseverante compagna nella vita dei più, seppure in altri paralleli. Statistiche e internet in qualche modo rendono visibili i flussi contemporanei dell’irrisolvibile pulviscolo migratorio, sempre comunque opaco rispetto al nitido assolutismo dell’istinto di sopravvivenza che aleggia ancora attorno al vecchio faggio. Abbiamo bisogno di elaborare e trasmettere questa memoria per approdare all’utopia dell’ecologia interiore, all’affermazione del diritto di esistere superando le tossiche ideologie che inquinano demagogicamente il pensiero di coloro che male interpretano la Storia, soprattutto se declinata al femminile.

    importante
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    Casimira Grandi

    Veneziana di nascita, trentina di adozione, Casimira Grandi è stata docente di storia sociale alla facoltà di Sociologia a Trento. Successivamente si è interessata ad un approccio sociale della storia per recuperare la memoria etica dei patrimoni immateriali dell'umanità. Ha pubblicato numerosi studi sull'emigrazione e sul lavoro femminile. Si è occupata di storia sanitaria, segnatamente dell'abbandono infantile e della psichiatria sul territorio.

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