Al cimitero monumentale di Trento, sabato 29 gennaio 2022, è stato proposto un antico rito di commiato trasferito nel capoluogo dai villaggi del Banale. Dopo l’addio alla defunta, a ognuno dei partecipanti al funerale è stato consegnato un pane da 150 grammi. Con tale ringraziamento, la defunta, originaria di Seo, ha voluto salutare coloro che avevano partecipato al suo ultimo viaggio. Così come aveva fatto sua mamma, quando era rimasta giovane vedova, a metà degli anni Cinquanta, con il marito morto tragicamente per un infortunio sul lavoro mentre era impegnato nella costruzione dello sbarramento e della galleria di Ponte Pià. Marisa Morelli se n’è andata a 69 anni il 26 gennaio 2022. Viveva a Trento assieme al marito, il dr. Franco Mazzola, apprezzato medico di famiglia, e alle figlie Anna e Francesca.
Una pagnotta per dire “grazie” a chi partecipa a un funerale. Il rito, antico di almeno mille anni, è mantenuto ancor oggi in alcuni villaggi del Banale: Seo, Stenico, Sclemo, Villa Banale e Premione. Ma a Trento non si era mai veduto, tant’è che alcuni partecipanti al funerale di una donna originaria di Seo, sabato mattina, hanno rifiutato l’offerta del pane. Non ne conoscevano l’origine, non sapevano che cosa fosse quel sacchetto che Fausto Brunelli e Sandra Zambanini porgevano lungo il viale, tra i cipressi, del cimitero monumentale di Trento. C’è voluta una spiegazione, a conclusione del funerale, da parte di don Sergio Nicolli, perché gli oltre trecento partecipanti allungassero la mano a chi offriva la pagnotta. “Chi usciva dal cimitero prima della fine del rito – racconta Sandra Zambanini – non sapeva, era perplesso. Qualcuno pensava che fossimo lì per una raccolta di fondi, per qualche questua di beneficenza. E noi a spiegare, a dire che era l’ultimo desiderio della defunta. Alla fine tutti i trecento pezzi di pane sono stati ritirati. E qualche decina di persone è pure rimasta senza”.
Lo scorso anno, con la pandemia, la distribuzione del “pane dell’obito” è stata sospesa. Negli ultimi mesi, l’antico rito è tornato a far capolino tra i cimiteri del Banale. Il 4 gennaio scorso, per esempio, a San Lorenzo (dove la distribuzione del pane non fa parte della tradizione) il funerale di Bruna Falagiarda, originaria di Dorsino, si è concluso con l’offerta di 300 pagnotte.
Ancor oggi, nei villaggi adagiati sulle balze del monte Valandro, i rintocchi della campana che suona “a morto” si accompagnano all’ordine del pane. Vi provvede il panificio Zambanini di San Lorenzo in Banale. Nel dicembre del 2017, sul limitare del cimitero di Seo dove era stata appena sepolta Valeria Carlini, 80 anni, Rino Bellotti, 85 anni, da Villa Banale raccontò a chi scrive: “Da quanche me ricordo mi i l’ha semper dat fora el pan dei morti. Anca quanche gh’era miseria. Evenze en Rendena i dava for el sal”. Quale poteva essere il significato di questo dono? “Adesso il significato è relativo – raccontò il Rino – ma una volta, quando c’era fame, poiché si veniva a piedi al funerale, sulla via del ritorno si mangiava la pagnotta. Era come fare una merenda, no?”
I testamenti con le disposizioni di pane e di sale
In verità non era la stessa cosa, non nella tradizione più profonda, almeno. Bisognava tornare ai testamenti degli appestati, ai lasciti in tempo di epidemie. In questi villaggi delle Giudicarie, i contagi furono ciclici. E colpirono duro. L’epidemia di colera del 1855, che prese le mosse proprio da qui, uccise il 10% della popolazione: 24 furono i morti a fronte di una popolazione di 258 unità. Lo rammentava una croce di pietra, piantata nel centro del cimitero, poco sotto quello scrigno d’arte (straordinaria un’Ultima cena di Cristoforo Baschenis) che è la parrocchiale di S. Michele arcangelo.
“Ai nostri cari/ cui rapiva/ il cholera/ anno MDCCCLV/ Ah, Signore/ clemente e pio/ dà requie/ ai figli nostri ricorderà/ questa croce/ che il tuo braccio perdonò/ i loro padri/ nei dì/ del travaglio/ tremendo”.
A Sclemo, un tiro di schioppo da Seo, nell’estate del 1855 morirono di colera 39 dei 300 abitanti. Per evitare la propagazione del contagio, l’autorità civile aveva imposto ai preti messe brevi, senza canti e sermoni. Non ci fu pane e non ci fu sale, quell’anno, per i partecipanti ai quei funerali replicati. Quel pezzo di pane, magari condito con un pizzico di sale, dava il senso all’esistenza. Che l’obito siglava con la riconoscenza ai partecipanti all’ultimo viaggio. Era il viatico delle pratiche pagane quando si dava al morto una moneta. Si poneva sotto la lingua del defunto per pagare Caronte che lo avrebbe traghettato nell’Ade, da una sponda all’altra del fiume Acheronte.
A Tierno di Mori, al momento dell’obito taluni usano ancora mettere una moneta nella busta con le espressioni di condoglianza. Oggi nessuno sa o ricorda le ragioni di questa usanza. Molti credono che si tratti di dare un contributo per le spese del funerale. Invece è un retaggio dei primi secoli quando in Trentino, divenuto territorio di Roma, furono importate dai Legionari usanze e credenze dell’Impero. Del resto, in area tedesca, soprattutto dove arrivarono i soldati di Druso, resta ancor oggi l’usanza del banchetto funebre, la totentanze, la danza della morte.
Nelle famiglie contadine, fin verso gli anni Sessanta del secolo scorso, quando la donna di casa usava un pizzico di sale recitava una “rechia”, un requiem alla memoria del defunto dal cui obito (funerale) era arrivato il sale. Chi scrive ricorda sua nonna, Vittoria (1895-1967), che a Segonzano diceva un’orazione ogni volta che insaporiva la minestra: “Rèchia materna…”. Lo conferma Carmen Degasperi Adorno (1945). A Torchio di Civezzano, quando moriva qualcuno, dicevano: “El s’ha lassà la sal” (perché, in dialetto, il sale è al femminile). E al momento di usarlo per la polenta si recitava un’orazione all’indirizzo dello scomparso che aveva disposto quel lascito.
L’usanza del sale affonda nei millenni, nell’Antico Testamento precristiano. Il sale era utilizzato per dare sapore al cibo; per conservare la carne o il pesce, poiché impediva la decomposizione degli alimenti. Era usato pure quale disinfettante sulle ferite. Per tale ragione, nelle cerimonie religiose si offriva al Numinoso. Del resto i Romani pagavano i loro soldati con una o più misure di sale. Da qui l’origine di “salario”, inteso come mercede: al soldato prima, all’operaio più tardi.
“Nulla è più utile del sale e del sole” scriveva Rutilio Namaziano, poeta latino del V° secolo. Lo stesso Plinio il Vecchio, naturalista latino del 1° secolo d. C., nel suo “Naturalis Historia” sosteneva che non era immaginabile una vita di civiltà senza l’utilizzo del sale. Cicerone (106-43 a. C.), lo aveva eletto a espediente della concordia. Scriveva nel “De amicitia” che “si devono mangiare insieme molti moggi di sale perché l’amicizia sia totale”. E Plauto? Dava consigli su come trattare i servi: “In casa del servo sigilla l’aglio e il sale”. Se Roma aveva la via Salaria, usata dai carrettieri per rifornire di sale la capitale dell’Impero, per secoli le miniere della città austriaca del sale, Salisburgo, garantirono il prezioso minerale alle mense anche del Tirolo meridionale. Poiché il sale causa la sete, la cultura giudaico-cristiana ne ha fatto strumento per richiamare la “sete di Dio”. Tant’è che nel Battesimo, fino ad anni recenti, un pizzico di sale era messo in bocca al bambino per invocare su di lui “il sale della sapienza”.
Il pane, invece, è l’ultimo retaggio di una tradizione pagana del banchetto funebre. Tertulliano, nel III secolo, aveva condannato come “superstizione” quel rito che era stato adottato pure dal cristianesimo. A nulla valsero le proibizioni di Ambrogio (339-397), vescovo di Milano, e di Agostino di Ippona (354-430), determinate da eccessi di ordine morale. Nel IV secolo, alla messa funebre seguiva la distribuzione di pane. Al banchetto erano invitati i poveri.
Il pane della vita, il sale della terra
Se il sale dà sapore al cibo, al momento della sepoltura i cristiani danno sapore alla terra. I testamenti degli appestati fanno ripetutamente menzione al pane e al sale. Gli Atti notarili di Fiavé, rogati [1630] in “questo anno perniciosissimo come è notorio”, non si dilungano sugli effetti della peste in quella plaga delle Giudicarie esteriori. A Ballino, probabile porta d’ingresso del contagio nelle Giudicarie, furono cancellate numerose famiglie.
In occasione della peste nera del 1348 il testamento, da disposizione di pochi – per lo più nobili o benestanti – diventò fenomeno se non di massa, almeno di una più vasta cerchia di persone. La curva dei testamenti si impennò davanti alla peste.
Un testamento, scritto su una pergamena lunga un metro e conservato nell’archivio curaziale di Strembo, fu dettato il 20 febbraio 1381 da Nicolò fu Boninsegna. Nel testo vi si nomina Bonomo, figlio di mastro Ottonello da Canixàga di Rendena. Era una frazione di Bocenago, detta poi Ciniciaga, la quale fu distrutta con la peste del 1630. Nicolò, lasciava un legato di 40 soldi in denaro trentino al sacerdote Leonardo, arciprete della Pieve di Rendena, e a Pietro, suo cappellano, perché ne facessero un Memento nella messa e nelle loro orazioni. Lasciò poi 40 soldi ai sacerdoti che avessero accompagnato il funerale. Inoltre, dispose l’acquisto di due ceri di tre libbre per la chiesa di San Tommaso di Strembo; uno per la chiesa della Pieve di Rendena e uno, del costo di un ducato, per la chiesa di Santa Maria di Campiglio. Ordinò, infine due staia di sale, uno di olio e due pani di frumento da consegnare a ogni “fuoco fumante” di Strembo. Con il ricavato di un pezzo di terra arativo, che mai avrebbe potuto essere alienato, si sarebbe dovuto provvedere l’olio per il lume perpetuo davanti all’altare di Strembo.
Di lasciti di sale e di frumento per farne pane da distribuire ai “Vicini”, cioè ai residenti da molto tempo nel villaggio, c’è ampia documentazione nei testamenti degli appestati di Preore, recuperati Paolo Scalfi Bàito (1924-2012), tradotti dal latino e pubblicati nel volume “Preore in Giudicarie”. Si tratta di una ventina di deposizioni testamentarie, raccolte nel luglio del 1630 dal curato di Preore, Nicola Zanoni di Arco, il quale, prima della tonsura, aveva svolto le funzioni di “pubblico notaio”. In una quarantina di giorni, nell’estate del 1630, a Preore, morirono 223 persone. Vale a dire i due terzi della popolazione. Si salvarono soltanto 13 famiglie.
Nel mese di luglio del 1630, a Preore, numerosi appestati, chiamato il “notaio”, dettarono il testamento. Tutti i lasciti contemplavano la celebrazione di messe nella chiesa di Santa Maria Maddalena a Preore; taluni prevedevano l’acquisto di olio per le lampade davanti agli altari; molti ordinavano la distribuzione di pane o di sale ai capifamiglia della Comunità. Così, Bartolomeo fu Simone Malacarni, da tempo a letto ammalato, il 14 luglio 1630 mandò due testimoni dal curato perché prendesse nota delle sue ultime volontà. Davanti la canonica di Preore, Nicola Zanoni, scrisse che gli eredi di Bartolomeo Malacarni “debbano distribuire nel giorno venerdì Santo, ogni anno, nei perpetui futuri tempi, ai singoli tanto ai fanciulli che alle fanciulle, tanto agli uomini che alle donne di qualunque sesso abitanti nella villa di Preore nel tempo della distribuzione, un pane cotto di frumento”.
Maddalena, vedova del fu signor Pietro Bertelli, comandò che fosse “distribuito per mezzo dei suoi eredi uno staio di sale per singolo fuoco, ossia famiglia abitante in Preore nel tempo della distribuzione e ciò a suffragio della sua anima e del marito defunto”. Una “libbra di sale per singolo fuoco per una volta sola” fu lasciata anche da Margherita figlia di Fabiano Manfredino, mentre Lucia, vedova del fu Apollonio Apolloni, ordinò che “sia distribuito mezzo staio di sale alle singole famiglie [… e che] sia distribuita una galetta di frumento in pane cotto ai singoli fuochi nel giorno di venerdì Santo, una volta tanto”. Giovanni Battitori, il 16 luglio “comandò che sia dato uno staio di sale alle singole famiglie abitanti in Preore e questo a suffragio dell’anima sua e della detta sua moglie, una volta tanto”. La quale signora, sopravvivendogli, avrebbe goduto l’usufrutto dei beni soltanto se fosse vissuta “da vedova casta e onesta”.
Invece, don Arnoldo da Zoccolo, della Pieve di Livo, che era curato a Ragoli, volle essere sepolto sotto il pavimento della chiesa. “Lasciò e comandò che sia distribuito a tutte e alle singole famiglie degli abitanti delle Ville di Favrio, Vigo e Bolzana, di Cerana e Airone, per ogni fuoco un pane e una moiola di vino”.
Il sale è distribuito ancor oggi in vari villaggi della Val Rendena. In particolare, a Javré, dove la tradizione è sentita soprattutto dagli anziani. A Saone, comune di Tione, si perpetua da due secoli un “Legato Sale” che coincide con il ritorno del sole in questo villaggio di 280 anime che fu comune autonomo sino al 1928. Nell’inverno Giudicariese, il sole fa le bizze con vari campanili.
L’ultima domenica di gennaio la campana maggiore di Saone suona alle 9 per chiamare a raccolta tutti i capifamiglia. Da due secoli, infatti, una volta l’anno viene adempiuto il “Legato del Sale”. Per un lascito testamentario di inizio Ottocento, ogni “fuoco” della comunità di Saone ha diritto a un certo quantitativo di sale. Così disposero con testamento vari offerenti. Prati, campi e boschi, dati in affitto a famiglie di Saone, avrebbero fruttato quanto bastava per acquistare il sale da distribuire ai “vicini”. È quanto capita anche oggi con il “Legato pio del sale di Saone”.
In val di Cembra, in occasione di processioni o funerali si distribuiva ai partecipanti una “tronda”. Era una pagnotta di dimensioni superiori al consueto.
Nell’archivio parrocchiale, a Verla di Giovo, ci sono varie pergamene al riguardo. Bartolomeo detto zarlo, figlio del defunto maestro Bertoldo dalle Ruote, di Lavis, “affermò davanti a testimoni che ogni anno nella festa di s. Giorgio [23 aprile] e questo per quattro anni, è obbligato a dare una bigoncia di vino buono e un piccolo staio di frumento sotto forma di pane, come consta da un legato che la sorella Adeleita aveva lasciato nel suo testamento”.
Enrico di castel Giovo (1483) “lascia un pranzo di pane, vino e piperata, giusta l’uso di Giovo” in sua memoria, il giorno del funerale. La distribuzione doveva avvenire sul cimitero di Giovo in ricordo del defunto testatore.
La tradizione si è sfarinata negli ultimi decenni del XX secolo. Dove oggi resiste fa “notizia”, retaggio di quando la vita era accompagnata dalla fame. E la morte, per molti, era quasi una liberazione.
© 2022 Il Trentino Nuovo
1 commento
Grazie Alberto, la Storia – anche la nostra Storia – è bene conoscerla e ripassarla, per sapere da dove veniamo, chi siamo e dove potremmo finire. Lo si è sempre detto, ma se lo ricordano soprattutto i vecchi, quasi mai gli unti da Dio… quelli dai quali è meglio star tre passi indrio.