Nei giorni degli Europei di calcio, con l’Italia sugli scudi, Carlo Martinelli ha scovato nella sua sterminata biblioteca, mentale oltre che cartacea, la storia straordinaria di un migrante rendenéro e del nipote divenuto un “gigante del football”.
Se lo è trovato di fronte, all’improvviso. Inaspettato. Guidava tranquillo, non c’era di che correre nel pomeriggio assolato della Rendena. C’era da prevedere, eccome, che il traffico sarebbe andato in tilt. Incominciava il raduno della Juve, il secondo al cospetto delle Dolomiti. La Vecchia Signora quanto a numero di tifosi non conosce rivali, pensò. Sì, siamo finiti in B, però ci siamo lavati le macchie, che poi le avevano fatte certi dirigenti indegni, mica i tifosi e neanche i giocatori, perdiana. Sorrise allo specchietto retrovisore, ché in macchina ci stava da solo. Gli era tornata alla mente la battutaccia che l’amico Ampelio, sfegatato tifoso viola, non disdegnava di riproporre a più non posso. “Lo sai cosa fa il perfetto tifoso della Fiorentina, quando sta per morire? Cambia squadra e diventa juventino, così c’è un tifoso bianconero in meno”. Non riusciva ad arrabbiarsi. La passione del calcio fatta di sfottò, gli piaceva. Detestava invece gli insulti gratuiti e non tollerava alcuna violenza.
Fu allora. Enorme. Gigante. Lo striscione pendeva da una casa, proprio all’angolo della strada, nel centro di Pinzolo. Impossibile non vederlo. Un lenzuolo in bianco e nero. Sopra, l’immagine gigante del gigante buono. Era lui, John Charles.
Gli venne voglia di bloccare l’auto e di scendere, là, subito, in mezzo alla carreggiata. Perché quel gigante in maglia bianconera non era solo il centravanti del quale lui sapeva snocciolare vita, morte e miracoli (cinque stagioni alla Juve, dal 1957 al 1962, 105 gol in 178 partite…), era soprattutto quel dolce, tenace e mai spezzato filo che lo riportava indietro, ai tempi del suo essere ragazzo.
Il caso, era stato solo il caso. Ci fu un tempo in cui i trentini, poveri in canna, andavano a cercare fortuna in giro per il mondo. Dalla Rendena i moleta partivano per andare ad affilare coltelli – e bravi come loro, nessuno mai – verso gli Stati Uniti o verso la Gran Bretagna. Il destino di nonno Gildo era stato diverso. Era finito nel Galles, terra di verdi colline, di tante, tantissime pecore e di nere miniere del carbone.
Il caso. Nonno Gildo finì a Cwmbwrla, vicino a Swansea, sud del Galles. Abitava in una di quelle casette basse, una uguale all’altra. Periferia povera, ma dignitosa. Anni Sessanta. Tutti a ricordare a nonno Gildo che a Cwmbwrla, anno del Signore 1931, era nato John William Charles, che adesso era il centravanti invincibile della Juventus dove giocavano anche Sivori e Boniperti.
È stato un Christmas gift anticipato, dicevano al nonno. Un regalo di Natale, perché John Charles era nato il 24 di dicembre. A forza di sentire i gallesi che decantavano le gesta di quel gigante, nonno Gildo diventò juventino con una particolare predilezione per John Charles. Come dimenticare la pazienza certosina con la quale il nonno ritagliava giornali e raccoglieva tutto quello che era possibile trovare sul centravanti buono? Indimenticabile nonno Gildo. Un giorno lo prese sulle ginocchia e, orgoglioso come non mai, gli mostrò un libro. Charles aveva smesso da tempo di giocare e aveva affidato le sue memorie calcistiche a Pier Cesare Baretti. Insieme avevano scritto “Goodbye Juventus”. Nonno Gildo se lo era fatto spedire dall’Italia.
“Ascolta”, gli disse. E iniziò a leggere. “La prima trasferta del 1957 ci portò a Udine dove un mio tiro azzeccato ci diede due punti. Ma in quella occasione noi della prima linea non imbroccammo una giornata di buona vena. Fu la difesa che consentì piuttosto alla squadra di cavarsela bene. Per la seconda apparizione dell’anno al Comunale decidemmo di vincere e convincere. Purtroppo dopo appena quindici minuti il Genoa vinceva due a zero. La nostra rincorsa fu generosa e disperata. Boni e Sivori riuscirono a costruire il pareggio. Io mi incaricai di affondare la palla della vittoria. Al 40’ del secondo tempo, con Franci che raccoglieva nel fondo della rete la sconfitta, io sentivo odore di terra, spiaccicato sul prato sotto il peso di cinque, sei miei compagni che mi erano piombati addosso, sentivo odor di terra e il cuore mi batteva forte dalla gioia. Confesso: ringraziai il Signore di avermi fatto venire in Italia. La serie dei nostri successi non accennava ad interrompersi. Passammo a Ferrara con un grande Boniperti, vincemmo a Torino contro il Padova e alla quinta giornata il nostro vantaggio su Milan e Fiorentina era già notevole. La sesta di campionato mi offrì il primo derby made in Italy. Infilai l’uno a zero della vittoria e rimasi commosso dall’accoglienza che il pubblico mi riservò. Saltando su una palla alta, faccia a faccia con Brancaleoni, il granata crollò a terra sanguinante e svenuto. Istintivamente smisi di giocare per soccorrerlo. Mentre ero chino su di lui tutto il pubblico applaudiva”.
Nonno Gildo chiuse il libro. “Hai capito perché lo chiamavano il gigante buono?”. E adesso era lì, in mezzo a Pinzolo, e quella immagine enorme che gli si era parata davanti, svaniva già. Impossibile bloccare la macchina in quel punto. Ed impossibile fermare anche i ricordi, le emozioni. Lui se ne era andato da tempo da Cwmbwrla. In Trentino le cose giravano bene, c’era lavoro e c’erano soldi, la ruota della vita aveva preso altre direzioni. In Galles, nell’ultimo periodo prima di tornare, aveva letto delle difficoltà di Charles, prima di morire. Ristrettezze economiche, guai di salute. La Juventus era intervenuta, lo aveva aiutato. Adesso se lo era trovato di fronte, ancora gigante. Il modo di ricordare nonno Gildo, anche. Sono imprevedibili le direzioni che può assumere un pallone.
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