Le recenti elezioni regionali in Sassonia e in Turingia (ex Germania est) hanno fatto emergere (ampiamente prevista nei sondaggi della vigilia) la voglia dell’elettorato di un ritorno al passato; al passo dell’oca; la nostalgia dell’uomo solo al comando, della supremazia della razza e di un nazionalismo caro all’estrema destra di AfD “Alleanz für Deutschland” (Alleanza per la Germania). A chi ritiene che tutto ciò non ci riguardi rammentiamo che si tratta di popolazioni che vivono a poche centinaia di chilometri (600-700) da casa nostra. Appena dietro l’angolo.
Che cosa sta accadendo in questi ultimi anni, in Germania, nella vecchia “Sowjetische Besatzungszone” (Zona di occupazione sovietica)?
Con la sconfitta nella seconda guerra mondiale, il territorio tedesco viene suddiviso fra le potenze vincitrici, sulla base di accordi formulati nella conferenza di Yalta (4 – 11 febbraio 1945) e definiti nel successivo incontro di Potsdam (17 luglio – 2 agosto 1945). Il destino delle terre del III Reich viene stabilito al tavolino e la “linea Oder-Neisse” diventa la demarcazione di influenza fra le aree di influenza occidentale e l’amministrazione militare sovietica, fino al 1949. Quell’anno, il 23 maggio, U.S.A., Gran Bretagna e Francia favoriscono e sostengono la nascita della Bundes Republik Deutschland (B.D.R. – Repubblica Federale Tedesca), mentre pochi mesi dopo (7 ottobre) nasce la Deutsche Demokratische Republik (D.D.R. – Repubblica Democratica Tedesca). Il mondo è ormai diviso da quella “cortina di ferro”, evocata da Winston Churchill nel suo discorso a Fulton del 5 marzo 1946: una “cortina di ferro scesa dal Baltico all’Adriatico” e che sul suolo tedesco trova la sua più plateale e concreta evidenza. Si tratta di una ferita profonda inferta al corpo geopolitico, storico e sociale della Germania bismarckiana; una ferita della quale rimangono tracce ben visibili a tutt’oggi almeno in sei città (Küstrin, Frankfurt am Oder, Guben, Forst, Bad Muskau e Görlitz) attraversate dai fiumi Oder e Neisse la cui sponda orientale è diventata polacca e quella occidentale è rimasta tedesca. Il “muro” è caduto, ma le divisioni – e con esse rancori e scontro – rimangono ancora ben vive nel tessuto della Germania riunificata.
I Land orientali della Sassonia, Turingia, Sassonia-Anhalt, Brandeburgo, Meclemburgo con la Pomerania occidentale, a partire dal 1949 diventano quindi uno Stato edificato sul modello sovietico stalinista e dominato da un senso generale di oppressione; di distanza dalla democrazia e paurosamente vicino all’autoritarismo assoluto. Si tratta di uno Stato di polizia dove tutti spiano tutti; dove, fin dal 1946, il partito unico S.E.D. (Sozialistiche Einheitspartei Deutschland – Partito Socialista Unificato Tedesco) è l’unica forza politica esistente e ammessa; dove l’economia è statale e centralizzata, secondo i modelli dei piani quinquennali di staliniana memoria; dove la “Stasi” (Ministerium für Staatssicherheit – Ministero per la Sicurezza dello Stato) è la “padrona” incontrastata della vita privata e sociale di ogni cittadino e dove l’ortodossia comunista è e rimane la più intransigente e rigida.
Non si tratta però solo di brutale imposizione dittatoriale.
Esiste, infatti, nei territori tedesco-orientali, una certa tradizione autoritaria che si rifà al mito del “Grande Federico” e che risale ancora al potere degli Junkers prussiani (nobili latifondisti), alla “Kampfkultur” bismarckiana e guglielmina ed all’idea centralista dello Stato etico di hegeliana ispirazione. È su questo terreno che attecchisce rapidamente il nazionalsocialismo, con la sua visione di un ulteriore centralismo di Stato, capace di regolare l’esistenza di ogni cittadino dentro il contenitore del Völk e responsabile della vita collettiva della nazione. Una costante onnipresenza dello Stato sostituisce così il formarsi di una società civile e si affida alla leadership forte di un “uomo solo al comando”, al quale affidare i destini singoli e collettivi, nella certezza che ciò restituirà grandezza alla missione storica della Germania. Questa impronta rimane intatta ed anzi si sviluppa paradossalmente proprio durante il periodo di esistenza della D.D.R., contraddistinto da uno statalismo invadente e straripante che abitua i cittadini al meccanismo della delega della responsabilità individuale e di gruppo ed alla sopportazione di tale invadenza, quale prezzo minore da pagare alla storia.
È questo “Geist” autoritario e profondo che va compreso, se ci si vuole addentrare nel tentativo di capire le ragioni del recente voto tedesco, che ha portato una forza politica di estrema destra e pericolosamente vicina all’hitlerismo – AfD “Alleanz für Deutschland” (Alleanza per la Germania) – a vincere le consultazioni regionali in Sassonia, dove si è piazzata al secondo posto nei consensi e in Turingia, dove addirittura è risultato il primo partito del Landtag.
Uno spirito autoritario quindi che si deposita su di un terreno scavato dalle differenze enormi emerse, a seguito della riunificazione tedesca del 1989, fra i Land posti ad oriente della linea Oder-Neisse e quelli ad occidente, già segnati peraltro da radicali diversità economiche, culturali e sociali. Infatti, se l’industria pesante, il sistema finanziario ed i grandi capitali tedeschi e stranieri abitano, pressoché da sempre, città come Francoforte, Colonia, Düsseldorf, Essen ma anche Monaco e Regensburg, è un’agricoltura ancora arretrata, un’economia in forte ritardo ed un terziario che non decolla e che soffre di logiche assistenzialistiche che vivono invece ad Erfurt, Dresda, Magdeburgo e Rostock.
La “Landeshauptstadt”, città capitale, della Turingia è Erfurt. Una bella città, ricca di storia. Nata da un antico insediamento slavo-germanico, diventa poi un fiorente centro medioevale di grande prestigio culturale ed ospita il Meister Eckart, priore del locale convento dei domenicani, filosofo, teologo e mistico, nonché grande figura del medioevo cristiano seppur giudicato eretico dalla Chiesa cattolica, che ha influenzato per secoli la cultura tedesca. Grazie anche a questi fermenti religiosi, Erfurt diventa uno dei più straordinari centri di studi teologici e qui, fra il 1501 e il 1505, Lutero frequenta l’università e si laurea in filosofia. Dominata dal “Domberg”, la collina del Duomo che un complesso edilizio sacro costituito appunto dal Duomo, dalla chiesa di San Severo e da una scalinata che rappresenta il percorso dell’uomo per giungere a Dio, Erfurt è insomma un luogo di cultura e di pensiero, scampata in parte alla guerra e diventata uno dei simboli della D.D.R. e della cultura tedesco-orientale. Ma la città è anche lo scenario della strage del liceo “Gutenberg” del 26 aprile 2002, quando uno studente diciannovenne uccide tredici insegnanti, un poliziotto ed alcuni studenti e poi si suicida. Quell’episodio di follia ha lasciato un segno indelebile nella città e nell’intero Land ed ha scatenato una paura irrazionale di fronte ad ogni novità e ad ogni trasformazione. Erfurt è, insomma, lo specchio della storia e delle fobie del suo Land e con esso, più in generale, dell’oriente tedesco.
La riunificazione voluta dal cancelliere Kohl non si è rivelata il miracolo dell’immediata ricchezza che gli “Ossi”, cioè gli abitanti dell’Est, si attendevano per diventare uguali ai “Wessi”, i cittadini dell’Ovest. Anzi. Certe difficoltà si sono acuite; talune sacche di povertà si sono dilatate; la disoccupazione, soprattutto giovanile, è aumentata, mentre le sicurezze sociali minime garantite dal sistema socialista della D.D.R. sono venute meno creando uno spaesamento trasversale alle generazioni, con tutto il suo portato di ansie, frustrazioni e incertezze sul futuro.
Una grande ed invasiva paura del domani – ulteriormente alimentata dai grandi flussi migratori e dall’avvento di crisi epocali: da quella finanziaria globale fino a quella pandemica del Covid ed alle sconosciute frontiere dell’intelligenza artificiale – si è impossessata del mondo tedesco-orientale, generando nuovi contrasti e nuovo rancore, facilmente trasformabile in un odio xenofobo ed antisemita destinato ad attingere risorse ideologiche dal vecchio armamentario nazista.
È un mondo, quello dei Land orientali, dove è scarso il dibattito sociale, labile la presenza degli attori sociali come il Sindacato e scadente l’impegno delle Chiese. Un mondo lasciato quasi alla deriva della storia e che adesso reclama un suo protagonismo e il diritto a far sentire la propria voce, così gonfia di paura e di pessimismo. Un gruppo di docenti universitari, nel primo decennio del Duemila, ha così elaborato una teoria antieuropeista, sulla quale è venuta rapidamente ad innestarsi l’ultranazionalismo populista di destra che ha fatto proprio dell’opposizione a Bruxelles ed all’Unione Europea, percepita come limite anzichè risorsa, il suo mantra. E’ in questo clima che ha piantato radici AfD, capendo fin da subito quale prateria di consenso si apriva davanti alle sue ricette estremiste; davanti al suo richiamo allo Stato tedesco per i tedeschi; a quel “Deutschland über alles” che tanto ricorda il delirio nazista; a quelle parole d’ordine che antepongono a tutto la “remigrazione” degli immigrati “voluti” da Angela Merkel e che – sostiene la retorica populista e razzista di AfD – sottraggono lavoro, risorse e futuro ai giovani tedeschi dell’est.
AfD, come già Hitler con il suo antisemitismo esasperato, ha creato un nemico – l’emigrato – attorno al quale chiamare a coagulo lo spirito puro della germanicità ed avviare una lotta che, non risolverà nulla, ma potrebbe portare AfD al vertice nel Bundestag (Parlamento federale) con le prossime consultazioni.
Björn Höcke – un insegnante nato e cresciuto in occidente e trapiantato in oriente, dove ha potuto dar libero sfogo al suo portato ideologico nazionalista ed estremista – non è un leader come altri nel partito di estrema destra; non è assimilabile a Tino Chrupalla o a Alice Weidel, gli altri esponenti di AfD. Höcke è diverso e forse unico.
È un nazista convinto, che non teme la rievocazione del regime e delle sue malate e folli tesi. È un oratore efficace, come già lo fu Hitler ed ha una capacità di trascinamento che lascia stupefatto l’ascoltatore medio, perché sa toccare certe corde sepolte dello spirito tedesco e della sua eterna insoddisfazione davanti a sé stesso e alla storia. Ma Höcke più di altri ha capito che AfD esiste finché esiste un oriente tedesco diffidente e spaventato; un oriente da dove le intelligenze migliori fuggono e dove invece rimangono i giovani emarginati ed incattiviti che si rifanno al mito ariano; un oriente che non dialoga e non vuole dialogare, ma pretende di impossessarsi di un orizzonte economico e sociale uguale a quello bavarese o renano; un oriente dove il “caporale boemo” ottenne i suoi primi successi elettorali proprio in Turingia; un oriente, infine, troppo vicino al mondo slavo ed alla sua spinta verso occidente e stufo d’essere chiamato a fare argine alle aspirazioni espansive di quel mondo verso l’Europa.
Che cosa succederà quindi il prossimo anno con le elezioni politiche in Germania, è il vero quesito che terrà l’Europa con il fiato sospeso.
Höcke, con i suoi “Kameraden”, percorrerà la stessa via parlamentare che già fu di Hitler o sceglierà altri modi per arrivare al potere? Sarà su questo terreno impervio che misureremo la capacità dei tedeschi – e non solo – di aver introitato o meno la lezione della storia e di essere ancora una solida democrazia piantata nel cuore del vecchio continente. Se così non sarà, dalla vecchia “Sowjetische Besatzungszone” potrebbe spirare un vento oscuro e divisivo che non sappiamo a quali approdi potrà condurci.
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