Il terrore e l’orrore. Da quaranta giorni il mondo vive col fiato sospeso per la strage degli innocenti scatenata dai terroristi palestinesi di Hamas e per la mattanza “dell’occhio per occhio, dente per dente”, quale risposta terribile di ferro e di fuoco avviata dal governo di Israele. Se è vero che la pace si fa tra nemici, non solo una pace non è alle viste, ma la guerra nella Striscia di Gaza rischia di appiccare l’incendio al resto del mondo. E poiché nessuno può chiamarsi fuori, Renzo Fracalossi (che sulla questione ebraica ha scritto migliaia di pagine e pubblicato alcuni libri) propone un’analisi e qualche spiegazione. Per tentare di capire.
Anzitutto distruggere
Esistono due verbi nella lingua tedesca che descrivono meglio di molti commenti, ciò che è successo lo scorso 7 ottobre. Si tratta anzitutto del verbo “Vernichten”, che traduciamo con “sterminare” ma è qualcosa di più intenso e più crudele e del verbo “vertilgen” che letteralmente significa “eliminare” incidendo completamente la materia da togliere. In questi due termini si condensa un orrore che non può essere assimilato né ad un tradizionale scontro militare, né a quanto la cronaca drammatica di quell’area ci ha, fin qui e purtroppo, abituati.
Si è trattato infatti di un indefinibile insieme di ferocia e crudeltà, mescolate con il sedime dell’odio, la coltivazione della vendetta ed un inatteso sadismo, che credevamo ormai estraneo alla nostra contemporaneità e che ha dato forma tragica alla pervicace volontà di distruggere, di annientare, di cancellare definitivamente la “gens” ebraica dal volto della terra. Ma questo dramma serve anche a mantenere intatto il potere palestinese nelle mani di Hamas e, allo stesso tempo, rappresenta una “scommessa” giocata sulla forza della tragedia e delle sue conseguenze e quindi sulla capacità delle stesse di orientare le opinioni pubbliche mondiali.
Infatti, nessuno che sia in buona fede può credere che il piano terroristico non abbia calcolato la reazione israeliana, giocando sulla stessa per aumentare l’empatia verso la causa palestinese e la riprovazione internazionale invece per la “vendetta sionista”. In questa trappola sembra essere caduto il governo israeliano, che mostra brutalmente la sua forza, pur sapendo quanto sia difficile l’obiettivo della scomparsa di Hamas dallo scenario politico e militare, al punto che il premier Netanyahu, conoscendo la possibile lunghezza della linea temporale del conflitto, nasconde i rischi che ciò comporta per Israele e le sue capacità di mantenere alto il livello dello scontro per lunghi periodi.
Nella sua storia, la politica israeliana più avveduta ha sempre saputo che le sue guerre potevano e dovevano risolversi in breve tempo e non solo per questioni militari, ma anche e soprattutto finanziarie. Una geografia piccola come quella di Israele non può infatti reggere economicamente un conflitto di lunga durata, vuoi per la sua ridotta popolazione, vuoi per le limitate capacità di produzione bellica, vuoi, infine, per un P.I.L. che si regge in larga misura sul turismo che, per sua natura, necessita di pace.
Su quest’orizzonte – che ha inghiottito l’antisionismo in un più generico e facile antisemitismo universale, capace di accomunare i mondi arabi ed islamici con le confuse letture di parte dell’estrema sinistra e dell’estrema destra europee da un lato e del sovranismo nazionalista dell’America trumpiana che si appresta al voto, dall’altro – si staglia un futuro sospeso fra la carenza di una strategia globale di lunga deriva e la ripresa di un mai sopito antiebraismo. Quest’ultimo è il frutto avvelenato di una genesi profonda, che ha preso forma dentro radicati presupposti e pregiudizi di natura politico-religiosa e si è quindi materializzato poi in un odio laico, interessato e razionale ed infine nel fanatismo religioso islamista di impronta sunnita, ovvero in una ideologia appunto della distruzione “tout court”, non tanto del singolo soldato o cittadino israeliano, bensì dello Stato di Israele e degli ebrei in quanto tali.
Il diritto di esistere
La barbara e cieca “pulizia etnica” perseguita da Harakat al-Muqawama al-Islamiyya – ovvero il Movimento di Resistenza Islamico meglio noto come Hamas – non è insomma figlia solo del presente, ma anzitutto della continuazione di uno scontro ebraico-palestinese scoppiato ancora durante il periodo del “Mandato” britannico sulla Palestina e poi cresciuto con la nascita dello Stato di Israele.
A nulla sono valsi i ripetuti tentativi di dar forma all’idea di “due popoli e due Stati”, già proposta nel 1947 dall’ O.N.U. ed accettata da Israele ma mai dagli arabi palestinesi, per i quali ogni dibattito sul futuro di quell’area si è sempre ridotto solo al dilemma sulla distruzione o meno di Israele. Indubbiamente questa non è la sede per una lettura storica dei fatti mediorientali e del loro succedersi, ma forse alcuni spunti – nel rispetto delle legittime opinioni di tutti – potrebbero favorire qualche desiderio di approfondimento.
Se tutto principia da una domanda dirimente – Israele ha diritto di esistere o no? – fino a quando per alcuni la risposta sarà no, non ci sarà sicurezza, né pace per nessuno in quell’area. Questo è il presupposto dal quale muove ogni ragionamento che non voglia ridursi a manichea presa di posizione aprioristica.
Israele non è una realtà perfetta. La politica israeliana si è caricata di errori e di scelte forse non sufficientemente ponderate, aprendo spazi pericolosi a coloro che intendono la politica come mera affermazione della forza e dove ogni forma di dialogo viene esiliata. L’attuale linea del governo di Netanyahu si muove su di una articolata complessità, perché sulla guerra in corso si innestano molte sopravvivenze: da quelle politiche del primo ministro agli interessi delle frange più estreme come quelle dei coloni e della loro volontà espansiva – e spesso abusiva – nei territori della Cisgiordania; dal conflitto di natura costituzionale che vede il Paese spaccato su due fronti contrapposti alla tenuta stessa della democrazia israeliana, mai messa così a dura prova. Della situazione odierna, Netanyahu porta su di sè responsabilità fondamentali. E’ stata infatti la sua politica a non ritenere più Hamas un pericolo ed anzi ad usarla per delegittimare l’Autorità palestinese; a non dare ascolto ai segnali di ciò che si stava preparando ed , infine, a portare il Paese sull’orlo di uno scontro intestino senza pari, pur di garantire il suo potere personale. Ma non basta. La coalizione più estremista dell’intera storia israeliana ha avviato un processo di trasformazione dello Stato in direzione “illiberale”; ha avviato di fatto l’annessione di una parte della Cisgiordania; ha letteralmente spaccato il Paese in opposte fazioni ed ha iniziato ad alienarsi il sostegno dei principali e storici partner internazionali, sommando così un pericolo insieme di decisioni che rischiano di portare Israele sull’orlo del baratro.
Tutto ciò premesso e qualunque sia la portata degli errori compiuti dai governi israeliani di ieri e di oggi, nulla può mai pregiudicare il diritto di Israele ad esistere comunque ed a prescindere da ogni altra considerazione. quel diritto che Hamas invece combatte con ogni risorsa per giungere alla “soluzione finale” della questione israeliana.
Il cuore del problema è questo: sopravvivere o sparire, perché Hamas ed i suoi sostenitori combatte invece con ogni risorsa possibile, per giungere alla “soluzione finale” della questione israeliana.
Certamente il “blitz” dei terroristi lascia sconcertati per la sua sorpresa e per la sua precisione e, al contempo, sbigottiti per la sua ferocia. In poche ore uno degli eserciti più preparati ed agguerriti del mondo è stato piegato da un gruppo, per quanto organizzato e preparato, di combattenti non professionisti, di esaltati in motocicletta e ciabatte, di “tagliagole” a sangue freddo e senza remore. È chiaro che, davanti a tutto questo, a Israele non è rimasto altro che scegliere la dolorosa strada del conflitto, per riaffermare la sua supremazia presso gli avversari e i loro alleati, ma anche per salvaguardare equilibri interni e prospettive di crescita, soprattutto per quegli interessi dei quali il governo in carica è portatore ed interprete.
Mai come in questo caso, forse, l’assioma di von Clausewitz – “la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi” – trova una sua conferma nei fatti e mette in evidenza però anche una certa carenza di quell’“intelligenza della guerra”, tanto cara alle pagine del “Vom Kriege”, che si fonda, non solo sull’operatività delle forze in campo, ma anche sull’analisi delle condizioni, delle probabilità e dei possibili risultati della guerra stessa.
La trasformazione
Nei quindici anni di potere di Netanyahu, Israele è profondamente mutato nelle sue plurali identità. La sua democrazia di stampo anglosassone ha subito un processo erosivo in funzione di un assetto del potere decisamente leaderistico, autoritario ed inclinato anche verso preoccupanti pulsioni teocratiche. Parimenti, Hamas e, più in complesso, tutta la realtà palestinese hanno subito un cambiamento radicale. Nell’opporsi infatti ad ogni spinta al dialogo e nel perseguire la distruzione totale di Israele, assecondando anche le spinte estremiste intestine a Paesi come l’Iran e quelle antiamericane che percorrono una consistente parte del globo, Hamas non è più ciò che era in origine. Non è più un movimento di ispirazione socialisteggiante ed attento alle esigenze di sopravvivenza del popolo palestinese. Ormai è diventato una frangia pericolosa di quel radicalismo islamico che sostituisce la politica con il fanatismo terrorista e punta alla “guerra santa”, allo scontro di civiltà ed a modelli statuali simil-teocratici e fondati sulla Shari’a, la legge coranica.
Hamas dimostra ogni giorno questa sua involuzione, soprattutto attraverso il disprezzo totale che nutre per i palestinesi, per il suo popolo usato come “scudo” per una vigliaccheria che disonora qualsiasi ideale e che si trincera dietro (o sotto) ospedali, scuole e parchi per bambini. Pare esserci una sorta di perversa convinzione che percorre la leadership del movimento: più palestinesi muoiono, più si rafforza la chiamata alla distruzione di Israele. Hamas insomma non cerca la pacificazione, perché vive e sopravvive, al pari della premiership israeliana, nel conflitto e del conflitto e questa condizione appare oggi irreversibile, anche se la stessa pone alcuni interrogativi: fino a quando Israele potrà sopportare il peso critico dell’opinione pubblica mondiale, sottoposta ogni giorno a bombardamenti mediatici che mirano a suscitare orrore ed a condannare soprattutto Israele? Fino a quando i suoi alleati reggeranno la pressione delle singole convenienze e delle opinioni pubbliche nazionali? Fino a quando potrà avere credito la tattica israeliana della conquista “casa per casa”?
Gli stessi dubbi interessano però anche l’agire di Hamas. Qual è il grado di sopportazione dei palestinesi in uno scontro finale con il “sionismo” dai contorni imprevedibili e quant’è disponibile il mondo arabo-islamico ad un lungo ed indefinito supporto economico e militare quotidiano, indispensabile per il terrorismo fondamentalista?
“Tirare la corda” è uno sport spesso praticato, un po’ ovunque, dagli uomini politici. Rare volte funziona, mentre troppo spesso la corda si spezza con conseguenze mai uguali e sempre sconosciute.
Ritrovare la politica
In tale contesto allora, l’unica soluzione con un minimo di possibilità è appunto quella della ritrovata centralità della politica. A poco serve, purtroppo, il trasporto e l’abbandono al fluire feroce delle immagini e delle emozioni che queste scatenano. Ciò che invece diventa utile è la prudente e costante ricerca di quei sottili fili che possano riannodare qualche forma di dialogo, anzitutto per contenere tempi e modalità della guerra e per riportare a casa gli ostaggi, ma anche per individuare modalità di tregua per i civili sottoposti a rischi mortali e ad uno stress spaventoso e visioni prospettiche sul futuro di questa martoriata regione, isolando così i rispettivi estremismi, le inutili minacce reciproche, le paure dell’allargamento del conflitto.
Mentre l’idea di “guerra santa” sembra affascinare sempre meno il mondo arabo, che pare forse attento anche alla necessità di un rilancio della funzione della politica, matura gradualmente la consapevolezza che Hamas non si sconfigge sul campo dello scontro militare, ma su quello della ricerca di altre interlocuzioni e di un minimo punto comune, dal quale partire per costruire processi politici diversi e nuovi. Togliere l’acqua in cui nuota il terrorismo ed il potere di Hamas, significa svuotare lo stagno della guerra. Senza di essa, gran parte del protagonismo di chi l’ha provocata viene meno. E’ la politica insomma che deve sostituire le armi, perché su quel terreno Hamas parte perdente e può essere sconfitta, anche dagli stessi palestinesi – e sono tanti – che non si riconoscono nella orribile violenza “omnisterminatrice” del movimento terrorista. Deve avvicinarsi sempre più il tempo dell’abbandono degli slogan e delle propagande, per evitare il rischio che anche questo conflitto stia diventando una guerra senza vincitori e vinti, al pari di quella altrettanto impantanata nell’assenza di politica del confronto russo-ucraino. Forse è il modello stesso di guerra convenzionale che è in sé superato e che non riesce più a trovare soluzione rapida a favore di una parte o dell’altra. Troppi interessi presenti e futuri in gioco, troppa globalizzazione, troppa tecnologia, troppi veti contrapposti per essere ancora una guerra di soldati e non di automi esaltati che si battono fra loro senza fine, gravando solo sui civili e sugli inermi il prezzo dello scontro ed il peso del conflitto.
Certamente la storia si fa con la tensione delle passioni, ma si fissa nel tempo con la razionalità del compromesso e della volontà. Mai con quella del terrore e della forza.
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