Da più parti, in questi giorni di campagna elettorale poi le distorsioni si moltiplicano, si assiste e non da oggi ai tentativi (mal riusciti, peraltro) di riscrivere la storia. Di cancellare progenitori e progenie, di rifarsi verginità (la chirurgia ricostruttiva fa miracoli, non è vero?), di sciacquare i panni neri nella candeggina. E allora, un ripassino di storia patria non farà male nemmeno a coloro che la storia l’hanno cancellata perfino dai programmi di scuola. I quali, la storia recente degli ultimi decenni non l’hanno mai sfiorata. Nemmeno per sbaglio.
Nell’Italia del terzo millennio, il trascorso mussoliniano pare ancora in grado di dettare il proprio vocabolario fatto di atteggiamenti, di modi di pensare, di teorie culturali, di socializzazioni, di simboli e di pratiche, volte ad indurre, per stadi successivi, il corpo sociale e l’elettorato sulla strada di un progressivo cambiamento di “regime”. Si tratta anzitutto di un processo culturale, più che della rievocazione del regime; un processo che riesce però a mixare la “travisazione” della storia con le domande di certezze del presente e con una visione di futuro fatta solo di lotta fra antagonismi. Su queste premesse, per il neofascismo si tratta adesso di favorire il transito della società del terzo millennio, dalla democrazia liberale a quella “democratura” che, attraverso diverse interpretazioni ed autoritarismi, sembra stia già prendendo piede anche in alcune realtà nazionali est-europee.
Vagheggiando cioè il ripristino di qualcosa che è andato perduto, la destra sta riscrivendo un racconto del domani fondato sul rischio della sostituzione etnica e sul “sospetto sul futuro”, per costruire una diversa identità collettiva, caratterizzata dalla lotta ideologica e pratica contro le debolezze e le insicurezze indotte dalle nuove ansie sociali ed individuali.
Denunciando la logica omologante della globalizzazione, il neofascismo si propone insomma come antitesi ad ogni riformismo, attraverso due precise direttrici di marcia: da un lato il recupero di una dimensione comunitaria nazionale e su base etnica, fondata sulla riappropriazione del territorio, oggi abbandonato dalle élites culturali e nel quale stanno tutti i valori della triade “Dio-Patria-Famiglia” e, dall’altro, la prospettiva della restaurazione di un “ordine di senso”, quale risposta alle accelerazioni incontrollate e confuse della modernità.
Nel tentativo di superare il caos delle contaminazioni planetarie, il neofascismo attinge alle certezze del binomio “popolo-nazione”, alla concezione centralista dello Stato e ad una visione semi-autarchica dell’economia, palesando così l’evidente incapacità di elaborare un moderno pensiero capace di mutare il radicalismo in un nuovo modello conservatore, trasformandolo così in una autentica forza liberale di stampo europeo.
L’ordine e la gerarchia, nella concezione neofascista, costituiscono una condizione naturale della società e delle sue organizzazioni, quando in esse dominano gli individui superiori, cioè gli unici in grado di realizzare spontaneamente il bene e gli interessi collettivi. Va da sé che la carenza di ordine e gerarchia – o peggio la loro assenza – sta all’origine, per l’ideologia neofascista, di tutti i mali nelle società del terzo millennio e di fronte ai quali la risposta ultima sembra stare ancora appunto nella riscoperta della trinità: “Dio – patria – famiglia”, quale essenza dell’architettura del disegno sociale perseguito dal neofascismo. Dio onnipotente è chiamato a legittimare il potere (così come accadeva per i monarchi del feudalesimo); la patria diventa il luogo che certifica l’appartenenza ad un ceppo comune e ad una stirpe identificata in uno specifico territorio (nel quale è molto difficile ammettere l’Altro) e, infine, la famiglia tradizionale, quale nucleo elementare ed imprescindibile della società e nella quale la prevalenza del maschile sul femminile è lampante. Senza la famiglia tradizionale, il singolo individuo non conta nulla e non serve allo sviluppo ordinato della storia. Lo affermava già il nazionalsocialismo, nel suo riferimento al ruolo delle masse ed all’insufficienza del singolo e lo riprende oggi una larga parte del “magistero” politico della destra europea: dai richiami lepenisti a quelli iberici di Vox e da quelli “orbanisti” fino a certi perimetri valoriali ed ideologici del “melonismo” italiano.
Tutto questo è ciò che la destra sta contrapponendo alla fragilità ed alla dinamicità della “società liquida” e così, più la democrazia sociale va in crisi, maggiormente cresce il potere di fascinazione neofascista che, nel rimando al “popolo” quale entità dotata di sovranità assoluta e capace di esprimere una volontà unificante, unidirezionale e quasi mistica perché racchiusa nell’omogeneità etnica della “Nazione”, palesa infine la volontà di sostituire gli ordinamenti democratici con forme di rappresentanza degli interessi, non tanto di classi o di ceti, bensì di una comunione di “indistinti” chiamati a distruggere il nemico, che è, in definitiva, chiunque non sia parte della massa.
Il neofascismo poggia insomma sulla centralità del mito delle origini comuni, delle tradizioni consacrate, dell’identità degli “indistinti”, dell’unità compatta del “noi”, attraverso la quale affrontare l’esistenza come realizzazione di questi miti, grazie all’impegno degli identici. Nell’utopia a venire, che da questi presupposti emerge come risposta alla crisi delle democrazie, si fanno largo quindi modelli di riconoscibilità per gli individui che cercano certezze nuove ed appaganti. Ecco pertanto affermarsi la contrapposizione al capitalismo finanziario, la riscoperta del nazionalismo, il trionfo delle “piccole patrie”, la religiosità acritica e fondata sulla “lotta dei simboli”, il rifiuto categorico all’immigrazione, l’ossessione per il controllo della sessualità che va vissuta solo fra identici e non “altri” o con estranei, la riduzione della politica alla mera emotività e l’“elitismo”, ovvero il governo della “res publica” non affidato agli eletti, ma ai “prescelti” dallo spirito della nazione. Non più quindi solo “conservazione e reazione”, bensì mobilitazione sociale contro la “vecchia politica” delle rappresentanze democratiche – quelle dei salotti e della “sinistra Prada” – le quali, affidandosi da tempo alla delega decisionale delle “governance”, risultano sempre più espressioni parziali di gruppi di interesse corporativo, nelle quali il “popolo” non può riconoscersi.
Il neofascismo invece combatte tutto ciò e prova a colmare i vuoti di rappresentanza che si sono venuti creando, rivolgendosi a quelle larghe parti della società che si avvertono abbandonate a sé stesse, appunto dalle élites “traditrici”. In tal modo, la polemica antiborghese sta riprendendo vigore, consentendo al neofascismo di farsi interprete del territorio sociale dell’esclusione. Così è stato e così sembra poter essere ancora.
Come noto, la globalizzazione, nella sua opera di scardinamento del precostituito “ordine mondiale”, ha cancellato larga parte dell’assetto sociale del Novecento, travolgendo e trasformando le vecchie classi sociali e le loro storiche contrapposizioni, generatesi dentro lo sviluppo del capitalismo. In questo “nuovo caos” è evaporata, ad esempio, la classe operaia che non ha più trovato, nelle culture del riformismo e del progressismo, una rotta decifrabile e adatta a guidarla dentro i cambiamenti repentini dell’era globale. Allo stesso modo, la piccola e media borghesia – improvvisamente impoverita e spaventata dagli accadimenti di un’economia veloce e spesso più virtuale che reale, perché finanziaria e cartacea – si è andata via via rifugiando in quelle rassicuranti retoriche del sovranismo e del populismo, al cui fascino semplicistico e manicheo non paiono affatto estranee anche le classi lavoratrici, ovvero quegli assetti sociali che un tempo si chiamavano “proletariato” ed ai quali il neofascismo guarda con crescente interesse di natura soprattutto elettorale e di consenso.
Su questo difficile quadro si è introdotta la simultanea crisi dei partiti e dei corpi intermedi, incapaci di farsi interpreti di istanze nuove e molto flessibili. Come già accaduto nei primi anni Venti del XX secolo, le organizzazioni politiche e sindacali, forse più concentrate oggi come allora sulle loro dinamiche interne anziché sulle trasformazioni sociali in atto, non riescono più a stare al passo con i cambiamenti ed a coagulare grandi movimenti di interesse e di rivendicazione, immiserendosi così in sterili polemiche che non si costituiscono in progetto politico alternativo, ma solo in inutile gossip.
Ciò ha riproposto quindi e almeno per alcuni versi, la stessa complessità sociale e lo stesso grado di insoddisfazione e paura, con tutto il suo portato di fobie razziste ed ideologiche, che già si impossessò delle classi meno abbienti nel primo dopoguerra; un terreno di coltura già sperimentato anche nel secondo dopoguerra italiano, a partire dagli anni Sessanta, quando l’avvento dei governi di centrosinistra in Italia, porta ad una progressiva emarginazione di quelle destre monarchiche e missine che, negli anni precedenti, hanno pur sostenuto più di un governo democristiano, in nome della barricata occidentale al comunismo.
Questa estromissione dal potere e dalle sue ramificazioni collaterali che tanto servono a cancellare il passato fascista di molti, quasi per reazione favorisce la nascita di pericolose frange estremistiche di destra, che giudicano debole e corrotto il vecchio M.S.I. e non si riconoscono più negli schemi del confronto democratico, scegliendo invece il più pericoloso ed incerto cammino extraparlamentare, che sfocia poi nel terrorismo nero. Si tratta di realtà come “Ordine Nuovo”, il “Fronte Nazionale” di Junio Valerio Borghese ed “Avanguardia Nazionale” che si richiama, quest’ultima, alla R.S.I. e simpatizza per i regimi militari che stanno spuntando in America Latina ed anche in Europa. Sono queste entità che alimentano un clima di crescente conflitto e violenza, a fronte del quale appare sempre più urgente l’intervento dei “corpi sani della nazione”, per ripristinare un “ordine nuovo” e di impronta autoritaria, secondo un disegno eversivo già tratteggiato con il famoso “Piano Solo”, fatto predisporre nel 1964 dal generale dei carabinieri Giovanni De Lorenzo, forse con il benestare del presidente della Repubblica, Antonio Segni, in opposizione al primo governo di centro-sinistra guidato da Aldo Moro che, in quei frangenti, sente un preoccupante “tintinnio di sciabole” nel Paese. E’ la premessa della ben nota “strategia delle tensione” che, negli anni successivi, si nutre di azioni criminali contro civili inermi, di minacce allo Stato costituzionale e di cospirazioni di sapore golpista ed è ascrivibile appunto alle organizzazioni della destra radicale che agiscono, probabilmente, su mandato di alcuni apparati deviati dello Stato, miranti ad una destabilizzazione pesante della democrazia italiana allo scopo di sostituirla con “governi forti”, sullo stampo di ciò che avviene già, ad esempio, nella “Grecia dei colonnelli”.
Si tratta di un lungo processo che principia probabilmente già con i fatti di Genova e di Reggio Emilia nel 1960 e che prosegue poi con lo stragismo più oscuro dell’attentato alla Banca dell’Agricoltura di Milano, con le tragedie di piazza della Loggia a Brescia e del treno “Italicus” e si conclude il 2 agosto 1980 con lo scoppio di un ordigno alla stazione ferroviaria di Bologna. È la ciclicità di un “Ventennio” che ne ricorda un altro e che sembra accompagnare la storia novecentesca italiana, in una sorta di ciclicità vichiana di corsi e ricorsi, come quello dei vent’anni di potere berlusconiano, vent’anni che si richiamano comunque ed in molte forme al fascismo ed alla sua ideologia e che, sulla scorta di una incontenibile e funzionale paura del comunismo, sdoganano ulteriormente il fascismo e le sue eredità. Sono gli anni delle bombe, dei “sanbabilini” e dei “pariolini”, di “Terza Posizione” e delle redivive “Squadre d’Azione Mussolini” (S.A.M.); dei “Campi Hobbit”, del terrorismo feroce dei “Nuclei Armati Rivoluzionari” (N.A.R.), ma anche della nascita della “Nuova Destra” di Gianfranco Fini che oltrepassa il vecchio M.S.I. di Almirante e Rauti e lo trasforma in un possibile interlocutore del dibattito democratico, per sfociare infine in un nuovo soggetto politico, ovvero “Alleanza Nazionale”, che acquisisce subito un protagonismo di rilievo nel confronto parlamentare e politico e nelle dinamiche di governo. Così, per la prima volta nella storia repubblicana, gli eredi diretti del fascismo siedono al governo e diventano quindi anch’essi corpi di quella democrazia che, fino a quel momento, hanno aspramente osteggiato e combattuto.
Ma se questo processo avviene dentro il M.S.I. prima e “A.N.” poi per finire con “Fratelli d’Italia” nel presente, sul versante del radicalismo extraparlamentare di destra – che se ha smesso gli scontri di piazza e l’eversione non ha dimenticato le sue origini squadriste ed i suoi scopi, come ci ricorda l’assalto vergognoso ed incivile alla sede della C.G.I.L. a Roma qualche anno fa – prende quota, peraltro ancora negli anni Ottanta e Novanta, una strana subcultura, basata su peculiari abbigliamenti, su comportamenti irriverenti ed estremi, su atteggiamenti rozzi ed aggressivi e sul fenomeno “punk-rock” quali modelli di una nuova quotidianità giovanile di destra. E’ il fenomeno degli “skinheads” e dei “naziskin” che si alimenta dentro una rete internazionale estremista costituita da gruppi come “National Front”, “Blood & Honor” e gli “Hammerskins” e che mescola, come già rammentato, sottoproletariato urbano, nuovo razzismo e superomismo, nazionalismo, antisemitismo ed omofobia e che porta lo Stato a rispondere ad un crescente clima di odio e di contrapposizioni violente con la “legge Mancino” del 1993 che, nel solco della norma del 1976, con la quale si dichiara fuori legge “Avanguardia nazionale”, condanna i crimini di odio.
Infine e con l’avvento del terzo millennio, si sviluppano le due formazioni più significative della nuova galassia radicale neofascista, ovvero “Forza Nuova” e “Casa Pound”, figliate dalle precedenti militanze di “Terza Posizione” e della “Fiamma Tricolore” di Rauti. Tali strutture disegnano un fondale ideologico che mira alla sintesi fra il circuito neofascista internazionale, il tradizionalismo ultracattolico e la battaglia contro il capitalismo delle multinazionali. Attenzione alla demografia, lotta alla criminalità, elaborazione di un solidarismo sociale di stampo nazionalistico, xenofobia, corporativismo, sovranismo ed euroscetticismo, sono i temi attraverso i quali perseguire un nuovo processo di “ricostruzione nazionale”. È questa l’eredità viva e più attuale del fascismo; un’eredità che la destra sempre più assume e fa propria, come proposta politica per il futuro ed è da quest’eredità che dobbiamo guardarci le spalle. Ogni giorno.