Che cosa fu il fascismo in Italia? Il movimento politico fondato da Benito Mussolini nel 1919, conquistò il potere nel 1922 con una “marcia su Roma”, quella “Roma marcia” che i leghisti d’antan denunciavano con “ladrona”. Mussolini consolidò il potere fino allo sfaldamento e allo sfinimento dei suoi sodali con la notte dei lunghi coltelli, il “Gran consiglio” del 25 luglio 1943. Da un anno, gli eredi di quell’ideologia (della massa, della razza, dell’autarchia, dello “spezzeremo le reni alla Grecia”, del braccio di ferro con le plutocrazie di un’Europa di là da venire, dell’alleanza con i nazisti) governano l’Italia. Vi sono arrivati con uno scivolamento verso destra durato più di un ventennio e uno “sdoganamento” favorito dall’Unto del Signore il quale, con le sue “armi di distrazione di massa”, ha sollazzato le masse promettendo il Paese di Bengodi. Più faceva gli affari suoi e più cresceva il populismo che ha portato alla situazione attuale. Oggi, si vorrebbe riproporre in fotocopia lo s-fascismo nazionale anche sul piano provinciale, dopo cinque anni di s-governo dell’autonomia che ha ridotto il Trentino a ottava provincia del Veneto. E allora non sarà fuori luogo ripercorrere con Renzo Fracalossi ciò che fu il fascismo in Italia e porsi, con lui, l’interrogativo: potrebbe tornare? Qualcuno disse che il fascismo fu una barzelletta della storia. A noi pare che più che ridere abbia fatto piangere. Molti. (af)
Il recente avvento della destra al governo del Paese ha riproposto, per alcuni versi, il tema di un possibile “ritorno” del fascismo. Si tratta senza dubbio di una suggestione forse più connessa alle necessità della propaganda e della dialettica politica, che non all’evidenza storica. Se infatti il fascismo non si è esaurito con la caduta del duce o con il crepuscolo tragico di Salò, dopo il conflitto ed i limitati e blandi tentativi di epurazione, esso si è connesso quasi subito con la nuova forma repubblicana e democratica dello Stato, insinuandosi gradualmente nel tessuto civile e nel dibattito sociale, ma anche interpretando sopite nostalgie e proseguendo l’impegno politico e militante contro le “tentazioni” riformiste e moderniste in questo Paese.
Nel percorrere tale sentiero, è stato, senza dubbio, coadiuvato da molte condizioni esterne (la “cortina di ferro”, la crescita in Europa delle sinistre dopo il Sessantotto, le grandi migrazioni ecc.), ma anche da complicità e connivenze interne alla società italiana e da collateralismi di varia natura, anche opaca e pericolosa.
Ciò però non significa affatto che le condizioni storiche, economiche e sociali, che favorirono, nel primo dopoguerra, lo sviluppo ed il radicamento di un potere violento, amorale e fortemente autoritario, si possano riproporre nel presente, con pari condizioni ed esiti. Oggi, rispetto ad un secolo fa, l’Italia è radicalmente mutata, sia sul versante sociale, politico ed economico interno, sia per l’affermarsi dell’idea europea e delle sue istituzioni, sia per una somma di intrecci internazionali sempre più complessi ed interdipendenti, sia infine per la crescita di problemi planetari che obbligano a condivisioni e schieramenti allora sconosciuti. A ciò si aggiunga poi la palese assenza di un leader carismatico, riconosciuto e riconoscibile e la carenza oggettiva di interessi esterni ed interni verso una brutale svolta fortemente autoritaria del Paese.
Certo, alcune situazioni specifiche, certi approcci alla realtà, talune espressioni del dibattito sociale e politico possono richiamare forme e profili del passato, ma nel complesso, paventare la riproposizione del regime, appare francamente un esercizio piuttosto ardito. Nemmeno le retoriche del populismo e del sovranismo a buon mercato, così care a certa contemporaneità est-europea, paiono fare grande presa, al di là dei proclami e delle enfasi elettorali, mentre Roma, molto pragmaticamente anche con una maggioranza politica “a trazione destra”, guarda più a Berlino e Parigi, che non a Varsavia e Budapest.
Se quindi è molto improbabile una riedizione del regime per come esso si è realizzato e per come l’abbiamo studiato e conosciuto, ciò non esime affatto l’analisi dallo spingersi ad indagare il difficile terreno dell’eredità lasciata comunque dal fascismo e costituita da una parabola complessa, sfaccettata e non tutta raccolta solo nell’esperienza e nelle successive mutazioni del Movimento Sociale Italiano (M.S.I.). Quest’ultimo, se fu un catalizzatore indubbio di molte aspirazioni e tensioni della destra del dopoguerra, fu altrettanto incapace di contenere in sé tutto il confuso portato ideologico, valoriale, narrativo, ma anche comportamentale e linguistico, che costituisce oggi quel radicalismo di destra, che chiamiamo neofascismo.
Si tratta di un pluriforme arcipelago di gruppi e realtà variamente articolati e sospesi fra la necessità di diventare un partito politico e la realtà di essere somma di aggregazioni a sfondo sociale, cioè movimenti più o meno effimeri e mescolati ad un evidente folklore nostalgico e razzista. Questa complicata massa di diversità trova però un minimo comune denominatore nel lascito dell’immaginario del “Ventennio” e della Repubblica Sociale di Salò, ma anche nella riscoperta delle suggestioni razziali ed antisemite e nel richiamo, ancora “fascinoso”, del nazismo. Da tutto questo si è così generata, negli anni, la vasta, inquieta ed inquietante “galassia nera” che abita e fermenta dentro questo Paese.
Se il fascismo è anzitutto un modo di “pensare ed agire politico” – che ha conquistato il consenso convinto di una larghissima maggioranza di italiani, influendo sui processi culturali e lasciando di sé un segno profondo e non riconducibile solo alla diretta esperienza del potere – esso storicamente si pone in antitesi a tutto ciò che odora di democratico, di libertario e di illuministico, puntando ogni sforzo in direzione di un mutamento totale del sistema della democrazia attuale, attraverso la negazione di ogni radice egualitaria.
È in questa cornice che si muove il neofascismo italico che, alimentato dai miti e dalla lezione ideologica mussoliniana, si è inserito nella vicenda storica post-bellica, agendo su due versanti distinti: quello dell’evoluzione parlamentare dentro le regole della democrazia e quello dell’estremismo radicale, “squadrista” ed anche, talora purtroppo, terrorista. Ognuna di queste componenti, con il proprio bagaglio ed anche grazie ad un processo di sdoganamento culturale e politico avviatosi durante la ventennale stagione del berlusconismo, si è impegnata nel tempo in una “lunga marcia” verso il potere, giungendo infine a conquistare, seppur dopo fasi alterne, un successo elettorale crescente ed allargando via via la platea del consenso anche in ambienti che fascisti non lo sono mai stati, come certe aree del mondo cattolico e della cultura liberale.
Si tratta di un consenso che lievita, a fronte di incertezze diffuse e di crescenti spaesamenti, appellandosi all’idea di un nuovo “blocco d’ordine” – idoneo freno verso ogni possibile cambiamento in avanti ed in direzione del globalismo e della multiculturalità – nel quale tutti si ritrovano: dal radicalismo di “Casa Pound” e “Forza Nuova”, alle posizioni apparentemente più concilianti della nuova dirigenza della destra di governo, dove il “doppiopetto”, ha sostituito – e dimenticato ormai – la camicia nera.
Nel confuso magma della lunga transizione che attanaglia il Paese da decenni, l’abilità del neofascismo è quella di saper mescolare, in giuste dosi, le antiche radici “sociali” del fascismo – evocate anche nella parentesi “repubblichina”, quelle cioè che richiamano lo spirito “rivoluzionario” delle origini, che si rifanno a qualche identità socialisteggiante e che consentono alla destra di appropriarsi di alcuni temi tradizionali della sinistra, come il solidarismo, l’attenzione alle emarginazioni ed ai diritti essenziali dei lavoratori – con il tentativo di rispondere alle inquietudini di senso del presente e che, da tempo, si agitano dentro la società italiana del terzo millennio.
Questa “ricetta” viene messa in ebollizione dentro un enorme calderone dove si mescolano ideologie, demagogie, retoriche, razzismi e populismi, con lo scopo finale di mettere a regime appunto un supposto “ordine nuovo”, fatto di ritrovato patriottismo e di certezze utili ad affrontare il caos della globalità, perché riferite a concezioni manichee, semplicistiche e nutrite di paura, dove il “noi” sta sempre dalla parte del giusto, del torteggiato, dell’indifeso, di colui insomma che solo uno Stato “forte” può tutelare e salvare da nemici stranieri, reali o presunti e da quel complotto universale che sembra ritorni ad aleggiare sulla storia dell’occidente.
Partendo dal postulato che il “sistema democratico” sia naturalmente contrario alla vera natura umana e mescolando tradizioni nichiliste ed anarchiche con alcune tipiche del “pensare fascista”, come il superomismo ed il ruolo centrale della nazione, il neofascismo moderno – anche riscoprendo la superiorità razziale ed ideologica del pensiero di Evola, coniugandola con un dilagante cospirazionismo trasversale, sfruttando la riscoperta del sovranismo in chiave antieuropeistica – sviluppa una fusione modernista del principio di identità con quello di nazionalità, offrendo quindi un modello di riconoscimento collettivo nuovo e fors’anche inconsapevolmente atteso dalla società italiana, dopo l’incespicare degli ultimi anni.
Tutto ciò conduce ad una narrazione nuova e funzionalmente nutrita nei grandi giacimenti delle paure millenaristiche; una narrazione che il neofascismo sta declinando e che, come già in un certo buio medioevale, contrappone le supposte tenebre del “melting pot” globale, alla luce della difesa identitaria e nazionale, solo dentro la quale l’individuo può trovare nuove ragioni di speranza e di sopravvivenza davanti al caos della modernità tecnologica.
(1 – Continua)