Gentili e generosi lettori di queste preziose pagine di Libertà, scusate se disturbo lo scorrere accaldato di queste prime giornate estive. So che, tradizionalmente, questa è la stagione della spensieratezza e della leggerezza e capisco quindi quanto possibile disturbo arreco. Confido però nella Vostra comprensione.
Eppure non riesco a tacere di fronte agli accadimenti di queste ore. Sono il figlio (adottato e perciò più infinitamente grato alla vita, perché ben più fortunato di quasi tutti voi, ma anche più in debito di riconoscenza e di amore) di un sommergibilista, che ha combattuto, nel disastro del XX secolo, sotto l’acqua salata ed ho raccolto, a fatica, i brandelli degli scarni racconti di papà sul fondo del mare. Ma sono anche il figlio, indegno e più che modesto, delle lezioni di umanità dell’ebraismo, del cristianesimo e della filosofia occidentale. Da queste ho ricavato la presunzione di credere nell’impossibilità di giudicare, ma ritengo anche d’aver appreso l’esperienza dell’inesperienza che mi ha portato a vedere, talora, il lato oscuro della realtà e mi ha insegnato comunque a comprendere le diversità che continuano a separare gli umani e fra esse soprattutto quelle che divaricano le vite ed i destini.
Leggo mediocremente i quotidiani, che sempre meno stupiscono ed informano e sempre più “velinano” un’informazione stanca e povera di stimolo all’approfondire. Però – e nonostante tutto – aiutano, magari inconsapevolmente, ogni minuscolo osservatore del nostro tempo e spingere la riflessione fino a mettere in luce l’ennesima disparità del racconto.
Cinque “ricconi” sfidano, purtroppo e per diletto, la natura nel fondo degli abissi, per vedere i rottami arrugginiti di una vecchia nave dormiente sui fondali oceanici. Penso a quegli abissi e so che sono gli stessi nei quali mio padre, durante l’infamità della guerra, ebbe a provare la paura senza fine dell’ignoto e della morte subacquea. Sento il silenzio strozzarmi la gola e la memoria.
Seicento “poveracci” sfidano per disperazione le insidie del “mare nostrum” e delle occulte convenienze nazionali per cercare, sopra i fondali marini, un approdo al loro futuro. Mentre scaccio un gorgoglio di commozione, davanti a due naufragi che il massmediatico ci narra con pari intensità e come fossero figli di identiche scelte, rammento l’idea della morte come una “livella” sociale e riscopro invece che proprio “sora nostra Morte corporale, da la quale nullo homo vivente po’ skappare” non è sempre uguale per tutti: e crepare per sfida o per disperazione non è il medesimo morire.
Comprendo che la “pietas” dev’essere identica di fronte al lutto, ma non riesco a togliermi dalla mente la lunga agonia dei bambini stivati sul fondo del peschereccio, come il boccheggio dei pesci pescati fino a qualche giorno prima e non posso non compararla alla, sperabilmente quasi inavvertibile, esplosione che tutto frantuma nelle profondità oceaniche.
So che, nella sua infinita generosità, il Dio di tutti perdona ed accoglie. Eppure quel differente andarsene e il suo racconto ci dicono di quanta strada ancora dobbiamo fare attorno all’idea di una uguaglianza vera, in vita come in morte, degli umani. Leggo che qualcuno si preoccupa per i costi del recupero del relitto del piccolo batiscafo della ricchezza, ma non ricordo – certamente per mio demerito – simili preoccupazioni per un eventuale sforzo, indirizzato a ritrovare, per consegnare alla terra e al ricordo, le centinaia di salme che si consumano sul verde muschio marino del Mediterraneo. So di non poter fare nulla ed allora mi rivolgo all’Infinito: “L’eterno riposo dona a loro – a tutti loro – o Signore, ma non smettere, Padre, di avere pietà per i disperati della terra. Certo, di essi sarà il regno dei cieli, perchè quello terreno rimane comunque un insopportabile inferno senza speranza. Non dimenticartene, Signore del mare e degli abissi.”
Buona estate e perdonate l’importuno.
Vostro Renzo Fracalossi