Con una tesi intitolata “La Donna e la Performance Sportiva: come il ciclo mestruale può influenzarne la prestazione” Federica Pellegrini è diventata da poco dottoressa honoris causa in scienze motorie all’Università San Raffaele di Roma. A prescindere dal curriculum sportivo che è già un premio in sé, Federica Pellegrini ha sollevato il velo su una ipocrisia che dura da sempre.
Darei una nuova e ulteriore medaglia a Federica Pellegrini. Non che ne abbia bisogno ma questa sarebbe una medaglia speciale, fuori dallo sport e dritta filata dentro i diritti delle donne. Alzi la mano chi non si è mai chiesto se quella saltatrice, o pattinatrice, o nuotatrice, o sciatrice… che raggiunge risultati mirabili e straordinari, abbia il ciclo mestruale oppure no.
Lo so che il tema è scabroso, ma usciamo una volta tanto dai vecchi cliché. E ammettiamolo: tutti se lo chiedono, così come per l’attività sessuale dei calciatori. Fa bene, fa male? Li rende meno efficienti?
Quando dice che il professionismo deve studiare il ciclo delle donne, Federica Pellegrini non rompe solo un tabù. Regala al femminismo una comunicazione da migliaia di like e getta luce su quella che è stata chiamata “medicina di genere”. La differenza, cioè, di cure e farmaci tra uomini e donne, tra uomini e bambini, tra giovani e anziani/e. Come avrete compreso la base, la radice da cui partire nel paragone tra donne, bambini e anziani è sempre l’uomo, perché da lì è partita la medicina e quello si è insegnato nelle facoltà.
Lo spiega molto bene la psicologa Carole Travis nel suo saggio “La misura sbagliata delle donne” (The Mismeasure of Women), quando (1992) scrisse: “Il corpo maschile è l’anatomia stessa”. Nella storia, la medicina si è sempre rifatta al genere maschile. E la radice è davvero lontana nel tempo, ma non per questo meno deleteria nell’influenzare l’insegnamento nelle facoltà accademiche. Anni e anni in cui si è creduto che il corpo maschile fosse il prototipo perfetto da studiare, analizzare e usare come parametro.
Caroline Criado Perez nel suo libro “Invisibili” ci proietta nella storia a quando Aristotele scrisse che la donna era un “maschio dal corpo mutilato”. In sostanza un uomo spezzato, privo o, per meglio dire, rovesciato. L’apparato interno, le ovaie, erano testicoli e via dicendo… Non solo: alla donna mancava pure il “calore vitale” e va da sé che il corpo maschile era l’ideale sublime.
Anche Galeno, nel secondo secolo dopo Cristo, sosteneva la tesi che nelle donne gli organi genitali erano introversi e malamente sviluppati. Vesalio, considerato il padre dell’anatomia, nel 1500 affermava che bastava studiare il corpo maschile e poi applicare tutto il resto a quello femminile.
Studiare il corpo delle donne non è facile. Dalle prime mestruazioni in poi, le donne hanno un sistema molto variabile dal punto di vista ormonale e questi cambiamenti influenzano anche il livello di risposta o di assorbimento dei farmaci. Non solo è necessario, è ora di farlo. Da qualche anno la medicina ha accolto l’idea che le differenze di sesso contano, che i corpi maschili non rappresentano l’umanità intera. Ma rimane il vuoto di centinaia di anni in cui il corpo femminile non è stato studiato. È ora di colmare questa lacuna.