Il fascismo agrario, caratteristico soprattutto della pianura padana, è puramente reazionario. I suoi aderenti sono piccoli o medi proprietari terrieri, fittavoli, mezzadri e commercianti legati all’economia del territorio. Reagiscono al ferreo controllo esercitato sulle campagne da un socialismo massimalista e strettamente classista, che si comporta come se la rivoluzione fosse già compiuta. Mentre nelle città come Bologna agisce un socialismo più avveduto e cauto, nella provincia fermenta lo scontro ideologico nel quale le squadre trovano un ideale terreno di coltivazione e di crescita.
Nelle campagne, anche grazie a una serie di fattori concomitanti, lo squadrismo si impegna in un’opera di proselitismo, sfruttando certe promesse demagogiche di spartizione della terra fra i coltivatori meno abbienti; giocando sulla paura che comunque serpeggia di fronte all’impunibilità dei fascisti ed, infine, alimentando il tradimento di molti responsabili delle “Leghe rosse”, più attenti al loro tornaconto personale che non all’avvento della “futura umanità”. I colori del fondale politico mutano repentinamente: dal rosso intenso del biennio 1919 -1921, al nero cupo dei due anni successivi.
Apre la serie, nel gennaio del 1921, la Lega di San Bartolomeo in Bosco (Ferrara) e, nel volgere di poche settimane, quasi tutta l’organizzazione sindacale socialista delle campagne emiliane e romagnole passa, armi e bagagli, al fascismo. Ciò che ne esce è un movimento ben diverso dal fascismo lombardo, più borghese e fors’anche meno rozzo. Quello padano, invece, è un fascismo che si fa interprete del carattere popolare di quel territorio, un carattere sanguigno, guascone, rissoso, fazioso e sedizioso, ma anche difficile da governare e dominare.
È in questo il brodo di coltura che si affermano i vari “ras” locali, capaci di costituire d’ora in poi una spina nel fianco di Mussolini durante tutto il “ventennio” e fino alla fine, quando proprio in quel fascismo di provincia incubano i germi che decretano la caduta del regime.
Figure come Dino Grandi e Italo Balbo, dei quali già si è scritto, ma anche Ettore Muti, Leandro Arpinati e Roberto Farinacci sono i protagonisti indiscussi di un clima che è, senza dubbio, ampiamente paragonabile a quello di una vera guerra civile. Lo squadrismo emiliano-romagnolo è costituito da una mescolanza di interessi. Da quelli del latifondo, alle esibizioni degli avventurieri di provincia; dalla difesa di posizioni di rendita ad una microcriminalità impunita e ad una arroganza che lo rende pronto a tutto. Senza una definita linea ideologica, almeno nelle prime fasi, e senza chiari obiettivi politici, ma solo con lo scopo di “menare le mani” per gusto e convenienza, questo squadrismo è qualcosa di ben diverso da quel folklore al quale, talora, ci si rifà, ieri come oggi, per raccontare e giustificare la violenza e le morti che si susseguono.
Quei caratteri peraltro si ritrovano parimenti nel primo squadrismo toscano, nato con il sostegno economico dell’“Alleanza di Difesa Cittadina”, un’associazione di ispirazione liberale nella quale si raccolgono gli interessi di gruppi industriali e finanziari che vogliono “salvare l’Italia dal bolscevismo.” Con questo obiettivo generico, l’“Alleanza” si impegna ad arruolare giovani, meglio se ex combattenti ed Arditi i quali, in nome dei loro “ideali”, siano pronti a battersi soprattutto contro il “nemico rosso”. Li trova presto in un gruppo di emarginati che ha già fondato autonomamente il primo “Fascio futurista”, su spinta di Umberto Banchelli, un’originale figura di avventuriero di stampo popolaresco che raccoglie attorno a sé personaggi di incerta collocazione politica e sociale e dei quali si sentirà molto parlare negli anni 1921 e 1922: da Francesco Giunta – fondatore del Fascio nella Venezia Giulia – ad Amerigo Dumini, assassino prezzolato di Giacomo Matteotti.
Anche in Toscana, al rientro dal fronte, i contadini si organizzano, ribellandosi al patto mezzadrile ed esasperati dalle mancate promesse di sviluppo e libertà per le quali si sono battuti in guerra. Su queste tensioni sociali che richiamano solo vaghi profili del bolscevismo russo, la borghesia urbana e i grandi proprietari reagiscono, trovando una strana ed inedita alleanza con i gruppi intellettuali fiorentini che si sentono eredi della grande tradizione culturale classica e non sopportano ipotesi di sovvertimento dell’ordine sociale, per come esso si pone. È cosi che, senza alcun dramma di coscienza, Firenze diventa la matrice culturale del fascismo e qui nascono riviste come “Leonardo” e “Lacerba”, passando per testate come “Hermès” e “La Voce”, nelle quali trovano ospitalità anche le prestigiose penne di Giuseppe Prezzolini, Giovanni Papini e Ardengo Soffici, irriducibili nemici del pacifismo, del socialismo e dell’umanitarismo.
Ciò nonostante, la prima azione pubblica organizzata dello squadrismo toscano si risolve in una solenne pagliacciata. A Montespertoli, sul balcone del municipio sventola una bandiera rossa che gli agrari del luogo vogliono togliere. Non riuscendovi di persona, chiamano allora in aiuto i fascisti fiorentini che, giunti sul posto, si installano nel caffè del paese e provocano, con canzoni e slogan, fino a quando, a tarda sera, il caffè chiude. Buttati fuori dal locale, i fascisti continuano i loro schiamazzi volgari, fino a quando sopraggiungono in paese i contadini del circondario, armati di forche e picconi, e pongono l’assedio alla casa dove gli squadristi si sono rifugiati, per non soccombere di fronte alla sproporzione dei numeri. La situazione è paradossale.
Da Firenze partono quindi rinforzi fascisti che vengono però bloccati dai regi Carabinieri prima di Montespertoli. Adesso gli squadristi asserragliati hanno paura. Riescono nella notte a dileguarsi alla chetichella, anche con la complicità delle autorità che li proteggono dall’ira dei braccianti e rientrano a Firenze incolumi. Ovviamente la retorica del regime magnificherà poi, completamente falsandola, la vicenda, ma qui è l’intero squadrismo toscano ad essere coperto di ridicolo.
La vendetta sarà rapida e pesante. Scontri a Firenze con feriti ed uccisi, sparatorie, pestaggi, olio di ricino e risse con gli operai che culminano, il 27 e 28 febbraio 1921, nell’assalto squadrista a San Frediano e poi a Scandicci. Le barricate operaie saranno rimosse dai militari i quali, affiancando gli squadristi, utilizzano perfino l’artiglieria. Ma non si è ancora raggiunto l’apice.
A Firenze i ferrovieri socialisti sono entrati in sciopero e bloccano le linee di trasporto ferroviario. La regia Marina militare sbarca quindi sessantaquattro meccanici e macchinisti. Vestiti in borghese, li manda verso Firenze, con una scorta di Carabinieri, per sostituire gli scioperanti e far ripartire il traffico su rotaia. Qualcuno lo viene a sapere e lancia l’allarme, scambiando quei marinai per squadristi. Giunti i due camion all’altezza di Empoli, vengono attaccati con armi da fuoco: è un massacro. Sei marinai e tre carabinieri rimangono a terra, mentre quasi tutti gli altri sono feriti. L’attacco è opera probabilmente della “Guardia Rossa”, un distaccamento di difesa voluto dalla neonata sezione del Partito Comunista d’Italia, al quale si aggregano oltre quattrocento empolesi.
La reazione squadrista si organizza per un assalto alla città. Nonostante ripetuti tentativi dei Bersaglieri per fermare la “spedizione punitiva”, Empoli viene assalita: la Camera del Lavoro brucia e così anche le sedi dei Circoli socialisti e delle Leghe dei contadini, mentre decine e decine di persone, a prescindere dalla loro innocenza o meno, vengono pesantemente aggredite. Quella “spedizione” compatta lo squadrismo fiorentino dietro al suo “ras”, il marchese Dino Perrone Compagni e lo chiama a un ruolo leaderistico, rispetto alle squadre di Rino Daus a Siena, di Renato Ricci a Carrara, di Pacino Pacini a Livorno e del farmacista Sandro Carosi, un assassino freddo e spietato che agisce in Lucchesia. Sono costoro che, nell’estate del 1922, guidano le operazioni più sanguinose in Val di Chiana, nel Bisenzio e soprattutto a Sarzana dove si combatte per le strade una sorta di guerriglia urbana e dove muoiono anche i fascisti. Lo squadrismo toscano è, se possibile, ancor più violento ed estremista di quello emiliano-romagnolo, al punto da fare il paio con il fascismo a cavallo, ovvero l’esperienza pugliese.
Si tratta di una importante declinazione meridionalista del fenomeno squadrista, poggiata sull’ampia adesione dei “mazzieri”, cioè di personaggi adusi alla violenza per il controllo del bracciantato agricolo e contraddistinti dall’uso del cavallo quale mezzo primario di locomozione. In genere, lo squadrismo meridionale non da di sé grandi prove, riconoscendosi sostanzialmente in due leader e cioè Aurelio Padovani a Napoli e Giuseppe Caradonna in Puglia e seguendone servilmente le direttive e scopi. Se Padovani è un ex ufficiale pluridecorato e massone di ispirazione repubblicana, nonché il propugnatore di una visione intransigente dello squadrismo, Caradonna, originario di Cerignola e fiero avversario del suo compaesano Giuseppe Di Vittorio, celebre sindacalista della C.G.L. (Confederazione Generale del Lavoro), è anch’egli un ex capitano decorato al valore, avvocato e proprietario terriero che vede invece nel fascismo lo strumento ideale per la tutela degli antichi privilegi e diritti di casta. Mentre, a Napoli, Padovani si batte per la rivoluzione sociale ed è contrario all’uso della violenza, al punto da scontrarsi ripetutamente con Mussolini che non mancherà di espellerlo nel 1923 dal P.N.F. (Partito Nazionale Fascista), Caradonna punta ad una propria autonoma leadership, usando lo squadrismo, in una terra intrisa di contrasti sociali, come “braccio violento” del grande latifondo.
Bene armati e dotati di una consistente rapidità di movimento, i cavalleggeri di “don Peppino” spadroneggiano nel Tavoliere e nelle Murge, arrivando ovunque per “persuadere” i contadini a non richiedere alcun aumento del salario quotidiano e a non reclamare ciò che non appartiene a loro da sempre, ovvero le terre private e demaniali.
A Bari, Andria e Barletta, ci sono tre Unioni del Lavoro con oltre diecimila iscritti, ma non c’è però la capacità e la volontà di opporsi alle squadracce, anche perché queste sono spalleggiate e coperte ovviamente dalle autorità e dalle forze dell’ordine. La Puglia viene sconvolta da una lunga sequenza di fatti gravissimi: incendi dei campi e degli oliveti, pestaggi, soprusi, stupri e violenze di ogni genere che portano all’assassinio anche del deputato Giuseppe Di Vagno – il Matteotti pugliese – da parte degli squadristi, al quale fa da contraltare l’uccisione, a Minervino, del latifondista Riccardo Barbera, massacrato dai suoi braccianti inferociti.
Con l’avvento del regime, anche lo squadrismo pugliese rientra, più o meno riottosamente, nei ranghi. Le camice nere a cavallo scendono dai destrieri e ripongono le mazze. La “rivoluzione fascista” è finita. Adesso è il tempo del regime, al quale lo squadrismo non serve più.
(6-continua; le precedenti puntate sono state immesse in rete il 24 marzo, 7 aprile, 17 aprile, 1° maggio, 14 maggio 2023)