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    Home»Gli anni dello squadrismo»(5) Sciopero e manganello
    Gli anni dello squadrismo

    (5) Sciopero e manganello

    Renzo FracalossiBy Renzo Fracalossi14 Maggio 2023Nessun commento7 Minuti di lettura
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    Fra il 1919 e il 1922 in Italia vengono proclamati e organizzati 5.650 scioperi, ai quali aderiscono oltre quattro milioni di persone su una popolazione totale di poco meno di quaranta milioni di individui. Questi sono i dati numerici sui quali è andata radicandosi, nonostante ripetuti tentativi di seria confutazione storica, l’opinione secondo la quale è questa situazione difficile che innesca quelle fisiologiche reazioni difensive, riassunte e raccolte dentro il fenomeno dello squadrismo. Ebbene, si tratta di una opinione tanto consolidata nella narrazione più semplicistica, quanto del tutto infondata.

    Come tutti gli scioperi, anche questi nascono ovviamente da una situazione complessiva di natura economica che ha caratteri generali e che investe tutta l’Europa post-bellica, rivelando proporzioni oltremodo importanti sia nelle potenze sconfitte, come fra i Paesi vincitori e quindi anche il regno d’Italia. Si tratta di un Paese fragile più di altri perché ad una situazione di diffusa povertà prebellica si sono sommati fattori di impoverimento ulteriore, generato dalla guerra e dalle sue conseguenze: l’industria pesante è a pezzi e fatica molto a riconvertirsi, anche per le forti carenze di carbone essenziale alla produzione; l’agricoltura sconta al nord-est e nella zona padana le devastazioni delle battaglie e del retrofronte ed altrove è evidente una enorme scarsità di manodopera, inghiottita dalla voragine dello scontro. Infine, su questo pesantissimo scenario grava una rapida inflazione dei prezzi dei beni al consumo che galoppa e si scarica prevalentemente sui redditi più bassi e fissi, producendo un diffuso disagio sociale ed una debolezza complessiva del sistema economico italiano.

    Fra il 1915 ed il 1919, oltre un milione e mezzo di italiani muore sui fronti del Carso e delle Alpi e per la pandemia della “febbre spagnola”, mentre nel solo 1920 più di 400 mila persone in età lavorativa emigrano all’estero. In questo complesso e tragico panorama, il governo italiano si affida a un economista di chiara fama come Francesco Saverio Nitti (1868-1953), esponente di punta del movimento intellettuale del “meridionalismo”, liberale e ben lontano dal fascismo, al punto che, qualche anno più tardi e con l’affermazione del regime, sarà costretto all’esilio in Francia.

    Nitti comprende la necessità di adottare urgenti misure finanziarie a sostegno della produzione e dei mercati, ma anche allo scopo di contenere l’inflazione. Tutto questo, coniugato con l’avvio di una generale ripresa economica continentale a partire dal 1920, consente all’Italia, già nella primavera di quell’anno, di superare le fasi più acute della crisi economica e di intraprendere quindi la strada della crescita. Anche per tali ragioni – e per l’innesco di caute politiche deflazionistiche – in tutto il quadriennio antecedente alla “marcia su Roma”, non esiste praticamente disoccupazione e l’economia mostra via via ampi segni di ripresa, offrendo una vasta gamma di prospettive di sviluppo concreto.

    Gli scioperi, in questo contesto, rappresentano certamente una risposta delle classi lavoratrici alla crisi incombente, ma anche uno strumento opportuno per evitare falcidie degli stipendi e soprattutto licenziamenti di massa ambiti dalle realtà padronali, ferme alla concezione che il lavoratore sia un costo e non una risorsa. Le frizioni socio-economiche quindi hanno radici diverse da quelle paventate dagli industriali e dagli agrari. Non è lo spirito della rivoluzione bolscevica che agita le masse, bensì l’incapacità delle classi imprenditoriali di comprendere la trasformazione avvenuta nel Paese e fra i lavoratori dopo l’esperienza del conflitto. Chi è partito per il fronte dalla condizione di bracciante sottomesso, è tornato con una consapevolezza diversa di sé e con la volontà di ottenere rispetto ed attenzioni concrete, avendo compreso che “senza truppa i generali non servono”. Imprenditori del nord e latifondisti del sud cercano invece, ognuno per il proprio interesse ed in qualsiasi modo lecito ed illecito, di compattare ogni risorsa contro l’odiato Partito Socialista ed in questa scelta trovano sostegno occulto anche dal cattolicesimo conservatore, dalla casta militare sabauda e perfino dalla casa reale. Non si vuole cedere alcunché davanti alla richiesta di maggiore equità economica e giustizia sociale e si scambiano volutamente le istanze sociali con un ipotetico complotto rivoluzionario, al quale si può contrapporre solo la forza bruta. 

    Quest’ultima viene individuata nella corruttibile galassia dello scontento reducistico che, privo di una iniziale guida sicura, oscilla fra le ragioni delle masse e la convenienza delle posizioni borghesi, finché approda allo squadrismo asservito alla spregiudicatezza del neonato movimento fascista. E ciò è provato da molti esempi, come quelli di alcuni scioperi locali organizzati proprio dai fascisti nel rovigotto e nel ferrarese, dove le camicie nere provano a raccogliere consenso fra i ceti popolari da un lato, mentre partecipano alla repressione padronale dall’altro. In questo clima confuso ed equivoco, si giunge così alle elezioni del 1919. L’esito è quello di un trionfo plateale per i socialisti, che conquistano ben 156 seggi parlamentari, ma anche per il nuovo Partito Popolare, recentemente creato da un sacerdote siciliano don Luigi Sturzo, che conquista 100 seggi, rendendo però e di fatto impossibile trovare una congrua e stabile maggioranza parlamentare.

    Su questo fondale caotico ed ingovernabile, si staglia la crisi dell’impresa fiumana, prima “marcia” di uno squadrismo che è già fascista, non foss’altro perché persegue obiettivi di sovversione interna al Paese e contro il potere parlamentare. A questo disegno, offre la sua “alata retorica” il sommo vate, ovvero quel Gabriele d’Annunzio che già ha abituato gli italiani alle sue “gloriose” imprese: dalla beffa di Buccari al volo su Vienna e l’impatto è tale che Mussolini ha più di un motivo per essere impensierito da questo “nòvo astro” che rischia di oscurare l’ascendente leadership del maestro di Predappio.

    Mussolini, in quel momento, è una voce critica e piuttosto seguita, ma non è ancora il “duce” del fascismo. Dirige il suo giornale – “Il Popolo d’Italia” fondato nel 1915 grazie al denaro francese, che nutre ogni sostegno possibile all’intervento italiano in guerra, mentre oscure ed occulte sovvenzioni di varia natura puntellano il giornale nel dopoguerra – alimentando l’agitazione violenta che già anima le squadracce, con una linea editoriale dove “tutto fa brodo”, come testimoniano alcune, fra le tante, dichiarazioni mussoliniane dell’epoca. “Per quanto riguarda i mezzi non abbiamo pregiudiziali”, afferma Mussolini, il che significa massima disponibilità per chiunque offra appoggi al fascismo. Ma non basta. Egli parla di sé come di “capo cinico, insensibile a tutto ciò che non sia pazza avventura”, dimostrando la propria spregiudicatezza e la voglia di “menare le mani” e mentre oggi dichiara tutto questo, domani proclama “immediata solidarietà con il popolo insorto contro gli affamatori”, che peraltro sono gli stessi dai quali il fascismo riceve fondi ed aiuti.

    Mussolini insomma sembra disposto a qualsiasi infamia pur di ottenere consenso e risorse economiche, trasformando così lo sparuto movimento del ‘19, in una forza di tutto rispetto, fatta di volontariato borghese, di ex combattenti, di antisocialismo, di teppismo sociale e di qualche apporto di cultura militare. È una forza che si compone di decine di migliaia di “camicie nere”, animate da un forte odio di classe e pronte a scatenare la loro rabbia individuale e collettiva in quelle “spedizioni punitive” che costituiscono l’ossatura della pianificazione di un “terrore” capace, solo nei primi tre mesi del 1921, di 726 assalti e devastazioni, con morti e feriti dei quali non si è mai riusciti ad avere un quadro esatto.

    Il reticolato organizzativo della sinistra partitica e sindacale viene rapidamente distrutto e i suoi esponenti sono uccisi o costretti all’esilio o al confino. Nel volgere di quattro anni – dal novembre 1919 con le ultime libere elezioni, all’ottobre del 1922 con la “marcia su Roma” – ogni opposizione viene sconfitta e piegata. Il terreno risulta arato quindi per la presa del potere e la costruzione del regime.

    (5-continua; le precedenti puntate sono state immesse in rete il 24 marzo, 7 aprile, 17 aprile, 1° maggio 2023)

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    Renzo Fracalossi

    Renzo Fracalossi, è nato a Rovereto il 5 luglio 1961. Risiede a Trento dove, dopo gli studi umanistici, lavora nella pubblica Amministrazione. Presiede l'associazione culturale "Club Armonia"; è componente della "Società di Studi Trentini di Scienze storiche" e della S.O.S.A.T. Ricercatore e divulgatore, si occupa da decenni di approfondire e narrare l'antisemitismo e con esso la Shoah e di indagare la storia locale. Collabora con università e centri di ricerca europei su tali questioni ed ha all'attivo alcune pubblicazioni e contributi. È autore teatrale, iscritto alla S.I.A.E., con testi rappresentati in sede locale e nazionale.

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