Probabilmente, nella storia italiana del Novecento, la data del 23 marzo 1919 è più importante di quella del 28 ottobre di due anni dopo, quando cioè arriva a compimento la “marcia su Roma”.
In quell’esordio di primavera, sbocciata cinque mesi dopo la fine del grandioso macello mondiale del Carso, delle Alpi, della Somme, di Verdun, di Yprès e del fronte orientale e la caduta degli imperi centrali, un gruppo di imprenditori lombardi, fra i quali spiccano anche alcuni ebrei milanesi, affitta una bella sala della sede del “Circolo dell’Alleanza Industriale e Commerciale” situata in piazza San Sepolcro a Milano. Lo scopo è quello di ospitare una riunione di carattere politico e che il quotidiano “Il Popolo d’Italia”, diretto da Benito Mussolini, annuncia con scarsa enfasi, scrivendo: “I corrispondenti, collaboratori, lettori, seguaci del Popolo d’Italia, ex combattenti, cittadini e rappresentanti dei Fasci della Nuova Italia e del resto della Nazione sono invitati ad intervenire all’adunata privata che sarà tenuta in Milano il prossimo 23 marzo. Gli amici che interverranno personalmente o in rappresentanza di gruppi, sono pregati di avvertirci senza indugio. Si terrà calcolo anche delle adesioni mandate per lettera.”
Francamente, l’avviso è cosi blando e superficiale che il 9 marzo si impone un richiamo sulle medesime pagine del giornale, che così afferma: “Il 23 marzo sarà creato l’antipartito, sorgeranno cioè i Fasci di Combattimento che faranno fronte contro due pericoli: quello misoneista di destra (ovvero quello di coloro che odiano ogni novità n.d.r.) e quello distruttivo di sinistra. Sarà fissato un programma di pochi punti, ma precisi e radicali…”.
La genericità e la vaghezza anche di questo secondo appello dimostrano chiaramente come l’allora trentaseienne Mussolini si rivolge più agli umori del Paese che non ad una precisa linea ideologica definita. Ancora in dubbio sul rapporto politico da tenere con i socialisti e sulla collocazione dei Fasci, che inizialmente guardano senza dubbio alcuno a sinistra, il futuro duce comprende però che per avere un posto ed una credibilità politica degna di attirare consensi popolari e, al contempo, attenzioni dalla borghesia industriale ed agraria, non può che farsi spazio come alternativa al modello socialista. In questa direzione avversa al P.S.I., Mussolini viene spinto anche dall’intransigenza dei vertici nazionali del socialismo italiano che non perdonano affatto al loro ex compagno ed ex direttore dell’“Avanti!” la scelta – e quindi ciò che loro giudicano un tradimento – interventista negli anni 1914/15.
Sulla scorta di queste premesse, l’adesione all’invito del “Popolo d’Italia” per la riunione del 23 marzo in piazza San Sepolcro registra circa quattrocento adesioni, molto meno quindi di ciò che Mussolini auspica ed è anche questo scarso entusiasmo che non lo stimola alla preparazione di quell’appuntamento, nel quale confluiscono peraltro tutte le declinazioni possibili di quello che sarà poi il movimento fascista.
I “sansepolcristi” – come verranno chiamati gli aderenti della prima ora ed ai quali poi il regime riserverà onori e prestigio, anche se spesso solo di facciata – sono un campionario esteso di vecchie e nuove delusioni politiche ed ideali: dall’interventismo frustrato all’anarco-sindacalismo; dall’arditismo “reducista” al sindacalismo rivoluzionario; dal futurismo marinettiano all’irredentismo nazionalista. In questa pittoresca e confusa compagine, non c’è alcuna coesione ideologica, se non vaghi orizzonti di prospettive del tutto indefinite. E questo si riverbera chiaramente anche nel testo della dichiarazione iniziale di Mussolini con la quale si apre l’incontro sansepolcrista, dichiarazione che viene peraltro approvata subito dai convenuti.
Mussolini indica le priorità, individuandole in: 1) alleanza incondizionata con le rivendicazioni di ordine materiale e morale propugnate dalle associazioni degli ex combattenti; 2) opposizione ad ogni forma di imperialismo di qualsiasi provenienza ed in danno all’Italia, con contestuale adesione al postulato della Società delle Nazioni circa l’integrazione degli Stati nazionali con le loro aree di influenza culturale, storica ed economica (qui il riferimento a Fiume ed alla Dalmazia appare del tutto evidente); 3) sabotaggio con ogni mezzo di qualsiasi forma di neutralismo in politica ed, infine, “guerra al socialismo, perché contrario alla Nazione.”
Inoltre, il discorso mussoliniano strizza l’occhio ai lavoratori ed alle loro rivendicazioni, accarezzando così le anime del sindacalismo; si dice favorevole alla repubblica anziché alla monarchia, raccogliendo le simpatie rivoluzionarie dell’area anarchica; dichiara la propria volontà di abolizione del Senato del regno, sposando le tesi rivoluzionarie e contrarie al bicameralismo e sostiene, buon ultima, l’estensione del suffragio universale e la lotta contro ogni e qualunque forma di dittatura.
Dal discorso emerge in modo evidente la distanza abissale che si registra fra i primi passi del movimento fascista, che avverte forte l’influenza progressista e democratica e gli esiti dello squadrismo dei giorni, dei mesi e degli anni successivi. Il senso e la linea politica descritta da Mussolini in quelle pagine è però troppo vaga ed equivoca, troppo retorica ed approssimativa e si regge sostanzialmente sulla potenza evocativa e l’arte oratoria del suo autore, che esercita una forte fascinazione su di una platea eterogenea e fatta anche di opposti, ma rispetto alla quale vuole non alienarsi alcuna simpatia, nella fase embrionale di un movimento che rischia di crearsi anche autonomamente, rispetto alle nascente leadership di Mussolini.
Il programma dei Fasci, come abbiamo visto, è orientato “a sinistra”, ma nemmeno il suo stesso autore ci crede molto, forse nella consapevolezza che si tratta di un progetto politico irrealizzabile nell’Italia di allora, come dimostra poi l’esito elettorale della consultazione del novembre 1919, con il trionfo del Partito Socialista e la sostanziale sconfitta del neonato movimento fascista. È proprio quell’esito fallimentare che convince in breve Mussolini a fare “carta straccia” del programma sansepolcrista e ad emarginare quelle aree minoritarie dei Fasci che guardano ancora nostalgicamente alla rivoluzione antiborghese. Nel volgere di pochi giorni, Mussolini compie così una conversione totale verso le esigenze della borghesia e dell’industria italiana, anche alimentando l’urgenza di un radicale antisocialismo ed investendo quindi ogni sforzo verso lo squadrismo e la violenza. In questo processo di trasformazione totale, il ruolo del giornale “Il Popolo d’Italia” è fondamentale. Dalla storica redazione milanese di via Paolo da Cannobio, al civico 35, Mussolini architetta e dirige la sua personale e spregiudicata scalata al potere, mentre quei locali diventano “il covo”, difeso da militi armati e dove ogni sera si ritrovano i primi fascisti in camicia nera per difendersi dagli assalti degli avversari politici, che peraltro non avvengono mai e dove ricevono, dal direttore del giornale in persona, le generose elargizioni quotidiane di banconote da dieci lire, che Mussolini ottiene, a sua volta, da quel mondo produttivo che sta guardando con crescente attenzione alle posizioni espresse dal fascismo.
Tutto avviene quasi naturalmente. Mussolini diventa così la mente politica, mentre gli Arditi e gli ex combattenti in camicia nera forniscono la manovalanza allo squadrismo che, da quel momento in poi, diventa il cuore pulsante del nuovo movimento, affacciatosi prepotentemente sulla scena politica nazionale “forte della sua forza” e del sostegno occulto del grande capitale dell’epoca.
(4-continua; le precedenti puntate sono state immesse in rete il 24 marzo, 7 aprile, 17 aprile 2023)