Mentre nel cuore d’Europa si riaffaccia un nuovo olocausto (Putin è stato colpito da mandato da cattura internazionale per “crimini contro l’umanità”, legati alla deportazione in Russia dei bambini ucraini) una scrittrice ed un filosofo hanno fuso i loro linguaggi per raccontare la storia di una bambina trasparente che non ha storia e non ha ricordi. “O forse ho la storia – dice – di tutti i bimbi che non hanno nome, non hanno mamma, non hanno casa, non hanno bambole e libri”. Eccolo il libro che merita di essere “divorato” e del quale scrive Renzo Fracalossi.
Con un atto di squisita cortesia, la prof. Casimira Grandi, dell’Università di Trento, mi ha recentemente segnalato un volumetto pubblicato dall’editore Libridine di Mazara del Vallo quest’anno ed uscito con un titolo significativo, “SULLA SOGLIA DEL FILO SPINATO” ed un sottotitolo ancor più evocativo: “Storia di una bambina trasparente e di un bambino con un nome”.
Si tratta di un racconto immaginario, ma fors’anche di qualcosa di più. Una scrittrice, Bia Cusumano ed un filosofo, Fabio Gabrielli, si mettono in relazione e raccontano incrociando parole, esperienze e storie, consapevoli che è sul racconto che si regge il tempo. Narrano così la bambina 445537, figlia della storia più drammatica e con l’identità tatuata sull’avambraccio sinistro che di sé parla con il più attuale Numa, generato dalla cultura digitale, tecnologica, viziata e senza orizzonti del presente.
Apparentemente un colloquio fra distanze siderali e fra domande opposte, ma in realtà invece un “idem sentire” circa l’esistenza infantile, ma già terribilmente adulta e le sue percorrenze.
L’avventura della vita mi ha regalato la possibilità di leggere moltissime memorie di adulti, ragazzi e bambini travolti dagli orrori del XX secolo e con quello spirito mi sono inoltrato nella “selva oscura” di un racconto che, dall’iniziale evidenza di sé, si fa via via sempre più nostro, mio, vostro e nel quale ritroviamo sovrapposte stigmate della storia e del presente. Camminando fra queste pagine sempre più lentamente e nell’abbraccio di una commozione crescente, d’un tratto ho visto profilarsi all’orizzonte la figurina quasi non più umana di Hurbinek, il “senza nome”.
Hurbinek era un nulla. Un figlio della morte. Un figlio di Auschwitz. Dimostrava circa tre anni e nessuno sapeva niente di lui. Era paralizzato dalle reni in giù e aveva le gambine atrofiche, sottili come stecchini. Il suo minuscolo avambraccio era stato tatuato, proprio come quello della bambina 445537. La parola mancava ad Hurbinek, perché nessuno si era mai curato di insegnargli alcunché e solo la natura-madre lo aveva istruito alla sopravvivenza. Il bisogno della parola premeva però nel suo sguardo con un’urgenza esplosiva. Morì nel marzo del ‘45, avendo conosciuto solo il grigio cielo dei Campi dell’odio. Hurbinek, il “senza nome”.
Il racconto della bambina che non ha nome, ma solo un numero e che con questo gioca mentre consuma i suoi giorni nella miniera della morte, m’è parso un risarcimento per Hurbinek. Mi è sembrato il regalo di quella parola che non ha mai avuto; la dignità di essere raccontato, ma anche di poter entrare in dialogo con Numa e, suo tramite, forse anche con noi. Numa, che tanto sembra l’anagramma di “Uman”, ci richiama ad un perduto senso di umanità. Numa ha tutto. 445537 non ha che il suo numero. Hurbinek non ha nemmeno questo perché non lo può dire. Eppure tutti loro ci chiamano al dovere di non sottrarci, di non evitare, di non cadere nell’oblio e nell’autoassoluzione dalla colpa di aver volto e di volgere tutt’ora altrove, lo sguardo.
Ma questo libro, per chi ha girovagato nell’estraneazione venefica della Shoah, svolge, forse inconsapevolmente, un’altra straordinaria funzione, come solo la grande letteratura sa portare a compimento. Questo volumetto infatti restituisce identità, vita e memoria a tutti i bambini violentati dalla storia e dall’animalità dell’uomo e alza un canto, dentro il quale risento le vocine candide dei duecento bambini dell’orfanotrofio del dott. Janusz Korczak (Varsavia 1878 – Treblinka 1942. “Nom de plume” del dott. Henryk Goldszmit, pedagogo, scrittore e medico ebreo-polacco), mentre li accompagna coraggiosamente verso il loro destino di gas. Sento quelle vocine che parlano con le parole di 445537 e cicaleggiano con la sazietà di tutto – e quindi di nulla – di Numa e del nostro tempo frastornato e cieco, mentre non trattengo più le lacrime.
Hurbinek – e con lui tutti noi che abbiamo smarrito la voce per raccontare e tramandare – ringrazia Bia e Fabio che non conosce, ma che, con 445537 e Numa, gli hanno permesso di trovare parole che ci trafiggono l’anima.
“SULLA SOGLIA DEL FILO SPINATO” non è un libro da leggere. È una cosa da assorbire per ritrovare quel briciolo di profondità e di cuore che forse non abbiamo ancora sacrificato al niente e che ancora ci chiama a qualche residua speranza.