Sempre più spesso sembra di vivere dentro una realtà rovesciata. Fino a poco tempo fa avevamo poche, ma sicure, certezze. Infatti, non pareva possibile confutare l’idea che la terra fosse rotonda; che la medicina fosse una scienza, anziché un complotto; che gli esiti elettorali, in democrazia, dovessero essere sempre rispettati: qui come a Washington o a Brasilia. Non solo: eravamo convinti che l’equazione “comunismo-uguale-fascismo” non reggesse davanti alla prova della storia, non foss’altro che per le diverse meccaniche ideologiche e materiali dei crimini commessi. Ritenevamo che la storia non fosse un semplice ricambio d’abito e che le posizioni politiche storicamente antitetiche fossero figlie di pensieri ed ideologie diverse ed antagoniste. In questo contesto, poveri illusi, ci sembrava ovvio anche ritenere, ad esempio, che il “defunto” M.S.I. (Movimento Sociale Italiano) avesse ereditato dal fascismo, al quale dichiaratamente di ispirava, oltre ad un innato e naturale anticomunismo, anche una certa idiosincrasia per la democrazia parlamentare ed un malcelato, ma sempre vivo, antisemitismo.
Evidentemente ci siamo sbagliati per anni, se vogliamo prestare fede – e come non potremo farlo? – alle perentorie dichiarazioni della Presidente del Consiglio dei Ministri e Segretario nazionale di “Fratelli d’ Italia”, la quale in una conferenza stampa ufficiale dello scorso 29 dicembre, così ha affermato: “Il M.S.I., per esempio, è stato un movimento sempre chiarissimo sul tema della lotta all’antisemitismo.”
È chiaro che ci siamo persi qualcosa. Fino ad oggi, infatti, ci era parso che all’armamentario ideologico missino non sia mai stata estranea la vocazione antisemita, figliata dall’insegnamento razzista di un “maître à penser” del regime prima e della destra europea poi come Julius Evola. Proprio ricordando il filosofo che animò larga parte della campagna antisemita italiana in preparazione prima ed in appoggio poi alle leggi razziali (o meglio razziste), ci viene spontaneo, chissà perché, rammentare anche figure come quella di Giorgio Almirante, per decenni Segretario nazionale del M.S.I., il quale, in una celebre intervista televisiva del 1967, dichiarava: “Quello che ero, come stato d’animo e mentalità, sono rimasto e lo rivendico.” Ma a cosa si riferiva Almirante? Forse ai suoi trascorsi come caporedattore della “fascistissima” testata del “Tevere” o come segretario di redazione della massima rivista antisemita e razzista italiana come “La difesa della razza”, diretta da Telesio Interlandi? O forse si riferiva al suo impegno nella Repubblica Sociale Italiana, in veste di ufficiale della Guardia Nazionale Repubblicana, che partecipò non solo alla repressione antipartigiana ma anche alla “caccia all’ebreo” e poi nel delicato ruolo di capo di gabinetto del Ministero della Cultura Popolare della stessa R.S.I.?
Eppure Giorgia Meloni sostiene che il M.S.I. (Movimento sociale Italiano) “è stato un movimento sempre chiarissimo sul tema della lotta all’antisemitismo” e, memori di tutto ciò, come dubitarne? Allo stesso modo, qualcuno rammenta ancora i collateralismi di ieri e, forse, di oggi fra la destra in doppiopetto e le formazioni più estremistiche ed antisemite come “Forza Nuova” e “Casa Pound”? Eppure Giorgia Meloni ritiene che sulla lotta all’antisemitismo la destra sia chiarissima e nessuno possa mettere in discussione questa granitica verità. Così, noi ci teniamo i nostri ricordi e i nostri dubbi, diventando sempre più minoranza.
Si tratta però di una condizione che non ci esime dal ritenere che, dopo aver ascoltato ed anche apprezzato le affermazioni di condanna delle leggi razziali pronunciate dalla medesima premier così come da altri esponenti del suo partito nelle circostanze del “Giorno della Memoria”, Giorgia Meloni avrebbe dovuto trarre le dovute conseguenze dalle sue stesse dichiarazioni.
Ci attendevamo quindi una chiara e netta presa di distanza dal fascismo; una censura senza tentennamenti e nostalgie della dittatura e una condanna definitiva e senza appello per il regime e le sue insensate ambizioni che distrussero il Paese e mandarono a morire in guerra centinaia di migliaia di italiani. Ci sarebbe piaciuto sentire, non solo che “le leggi razziali sono state una macchia indelebile e un’infamia che avvenne nel silenzio di troppi”, ma anche un identico giudizio sull’uccisione dell’onorevole socialista Giacomo Matteotti, dei fratelli ebrei Carlo e Nello Rosselli, del sacerdote don Giovanni Minzoni, del parlamentare liberale Giovanni Amendola, ma anche del quasi sconosciuto contadino emiliano Fulgenzio Zani, del maestro sudtirolese Franz Innerhofer, dell’operaio toscano Pietro Nieri e del marinaio carrarino Enrico Paolini e con loro delle oltre seicento vittime dello squadrismo fascista. Purtroppo su questi massacri da quasi un secolo pare sia sceso un inamovibile silenzio collettivo, lo stesso che impedisce di ammettere la natura dittatoriale e liberticida del fascismo, rintracciando specifiche responsabilità individuali, collettive e storiche, con le relative conseguenze e facendo di esse pubblica ammenda.
Nessuno ammette. Nessuno riconosce. Nessuno si pente. Anzi. C’è addirittura chi teorizza, anche qui in una terra naturalmente e storicamente antifascista proprio perché autonomista, che bisogna “ripensare le modalità” del fare memoria, proponendo il 27 gennaio la narrazione degli “orrori della seconda guerra mondiale”, mettendo fra l’altro ed in tal modo sullo stesso piano non solo vincitori e vinti ma anche vittime e carnefici, anziché approfondire la diffusione capillare della memoria degli orrori nazifascisti e dell’insegnamento che da quella medesima memoria discende. E non basta.
Negli scorsi giorni, il Consiglio regionale ha approvato una mozione presentata da “Fratelli d’Italia”, identica a quella sottoposta all’esame del Parlamento europeo qualche anno fa il quale, compiendo una evidente forzatura, l’aveva votata ed accolta. Lo scopo non è nuovo. Il tentativo, superficiale ed antistorico, è infatti quello di “costruire una memoria comune a tutti”, mettendo sullo stesso piano Hitler e Stalin. Non serve essere storici di professione. Qualunque semplice lettore di un qualsiasi libro di storia contemporanea non può non convenire sul fatto che i due dittatori furono dei criminali assassini come forse nessun altro nella storia moderna. Eppure ciò che li differenzia fu ed è il perseguimento dei propri fini.
Stalin manda nei terribili “Gulag” siberiani e della Kolyma i suoi avversari politici, o molto spesso solo presunti tali, allargando la fascia delle loro supposte responsabilità “controrivoluzionarie” anche a familiari, parenti ed amici. Dopo aver eliminato ogni possibile concorrente, impone un regime di terrore che culmina nelle grandi “purghe” avviate alla metà degli anni Trenta e concluse nel secondo dopoguerra con il “processo contro i medici” ebrei e con la morte del dittatore georgiano e che decapita le classi dirigenti civili e militari dell’Unione Sovietica, con esiti spaventosi anche nel medio periodo e con lo scoppio della guerra. Violento e paranoico, egli costruisce un sistema concentrazionario in linea con la tradizione zarista e dentro il quale scompaiono circa venti milioni di vittime, senza però alcun progetto di pianificazione, senza alcun presupposto di razzismo biologico, senza alcuna convinta partecipazione delle masse se non in qualità di pubblico-suddito da governare con la paura.
Hitler invece si muove sullo scenario di un suo personale odio e su radicati pregiudizi antisemiti; su di una distorta e terribile idea di superiorità etnico-razziale; su di una sorta di “ideologia superomista” ben diversa dal “culto della personalità” di sovietica memoria; su di un bisogno di rivincita singola e collettiva che trasforma il popolo tedesco nel popolo nazista; su di un esasperato antimarxismo ed anticomunismo e su di una ricercata pianificazione tecnica e scientifica dell’assassinio di massa, che rende del tutto unica la tragedia dell’Olocausto nel panorama storico. Certamente alcune similitudini si possono pur fare, come ad esempio il parallelo fra le “purghe” staliniane e la “notte dei lunghi coltelli” nazista durante le quali i due dittatori eliminano ogni opposizione interna, ma si tratta di episodi, per quanto terribili, e non di un legame storico fra le due esperienze.
Mettere comunismo e nazifascismo sullo stesso piano è quindi un errore piuttosto grossolano e reso ancor più acuto dalla sottesa volontà di riscrivere la storia, perché questo pare essere il fine di un processo di costruzione di una “nuova” memoria che mette tutti sullo stesso piano. Negare le profonde ed evidenti differenze fra l’Unione Sovietica ed il III Reich significa, non solo cancellare volutamente il drammatico ed enorme contributo russo in vite umane alla vittoria alleata sul nazifascismo, ma anche disconoscere l’apporto dei fenomeni resistenziali europei riferiti all’ area ideologica marxista e comunista. Rifiutare questa che è la narrazione della storia per come essa è accaduta, vuol dire accomunare tutti i sistemi dittatoriali in un unico grande calderone autoassolutorio che, prima o poi, conduce alla confusione, alla generalizzazione e quindi all’oblio se non al negazionismo, cioè esattamente al contrario di ciò che si dovrebbe prefiggere di fare ogni serio percorso della memoria mirato a non ricadere nella tragicità già dolorosamente vissuta e nel costante rischio del ripetersi.
Ma forse, alla fine, della memoria non importa poi molto a nessuno. Basta fare “passerella” il 27 gennaio, mentre per il resto dell’anno ciò che conta veramente è, come sempre, allinearsi a quanti adesso “guidano i destini della patria” e che sono sempre stati “chiarissimi sul tema della lotta all’antisemitismo.”