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    Festival di-versi

    Pier Dal RìBy Pier Dal Rì14 Febbraio 2023Aggiornato:15 Febbraio 2023Nessun commento8 Minuti di lettura
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    Il dopofestival e il dopoelezioni. Un popolo inchiodato davanti alla Tv e schiodato davanti alle urne, disertate in proporzioni mai viste. Che cosa accade agli italiani che fanno notte fonda sul pentagramma di vecchie melodie proposte da cariatidi dell’ugola o di nuovi gorgheggi presentati da giovanotti con look improbabili e improponibili alle persone cosiddette normali? Nella kermesse ligure è entrato di tutto ed è uscito di più. Messaggi di impegno civile e proclami di fughe in avanti. C’è chi ha resistito fino a notte fonda e chi è sprofondato tra gli applausi e gli sbadigli. Pier dal Rì un po’ l’uno e un po’ l’altro. E ne dà conto con quel guizzo di ironia che condisce l’intelligenza degli umani. 

    Amadeus, il (semi)dio del fu tubo catodico, amato per qualche giorno in televisione, torna a fare il presentatore. Sempre in televisione, sempre alla Rai, sempre sulla prima rete TV. Da come la cosa viene annunciata sembra una “notiziona” e c’è da chiedersi se non ci sia sotto qualcosa. Perché tutto questo spazio, tutta questa enfasi, per un pur bravo conduttore che continua il suo già luccicante e prestigioso lavoro? 

    Perché poi se continua con gli intrattenimenti serali del piccolo schermo a entrare nelle case degli italiani dove anche Salvini, con i Tg, è già una presenza certa e inflazionata? Forse ci sono cose che molti vorrebbero dire ma ne temono le reazioni; hanno qualcosa sullo stomaco ma non trovano il coraggio di sputare il rospo. Sanremo lo ha santificato troppo e toccare o criticare St. Amadeus può essere pericoloso come per chi tocca i fili dell’alta tensione. Figlio di un dio maggiore. 

    Per la prima volta mi sono imposto di guardare il festival di Sanremo, preparandomi riposato, per la sera, con un pisolo pomeridiano. È indubbio che abbia fatto felice chi lo ha visto con me e che, spesso, cedeva a Morfeo. Proprio tutto non l’ho visto nemmeno io, ma a spezzoni sì e comunque quanto basta per compilare un rapporto sintetico di giudizio e di risultato, come si usa fare nelle scuole ad ogni quadrimestre. Lungo, stucchevole, un caravan serraglio di italica fattura, un’orgia mediatica che pur essendo vista in moltissimi paesi del mondo, fa meditare sull’opportunità di farlo. 

    Chi lo ha seguito, si sa, non sono soltanto ricchi e viziatelli, poltroni da copertina e divano. Il festival della canzone italiana però corre, ovunque celebre, come i fagioli della Carrà, simbolo dell’Italia che tutti vorrebbero raggiungere a piedi o con i barconi; anche chi è in guerra, alla fame; chi è in tenda e ben riparato negli spazi collettivi per rifugiati, in camere d’attesa del loro futuro. Ecco li penso lì che si tengono vicini, con un vecchio televisore recuperato dal cassonetto del C. R. M., acceso per provare a sognare. Mi chiedevo quale fosse il loro giudizio per tutti questi lustrini, un luccichio dilagante, una scenografia esagerata e quell’impianto scenico e teatrale dove scale, gallerie, platee, soppalchi e affacci regali, creavano una grande bolla, il grande bluff di un’Italia che sa esagerare. La cosa più importante sta nella prima fila dell’Ariston. Dove siede chi ha il diritto, a volte il dovere, di esprimere il proprio rango sociale, la propria appartenenza alla classe dominante. Dirigenti della Rai, conduttori di programmi TV, presentatori e volti noti di “mamma” Rai. Prodiga di figli, di mogli, di mariti, di suocere e di mamme: di chi era impegnato sul palcoscenico e di chi nel sottoscala. Forse c’era un motivo: le giacche dei presentatori ed i modelli attillatissimi delle conduttrici non consentivano di portare effetti personali.

    Pertanto anche telefoni, borsette, pillole, fazzoletti, profumi ed altro erano apostati nella postazione di famiglia, nella Cassa Rurale di casa e credo che tutti abbiano notato il finto furto di una borsa sotto il sedile alla Bertone. Bello guardare il festival da ignorante in materia di musica, come ho fatto io, pur avendo un giovane nipote che si diletta in musica il quale mi ha anticipato, dopo la prima serata, il nome di chi secondo lui sarebbe risultato primo. E pure il terzo, con puntuale sicurezza, come poi si è verificato. Per quanto mi riguarda, invece, ho potuto concentrarmi sulle curiosità e prendere nota di quanto veniva proposto per essere appunto notato e annotato. So, ne sono certo, che in qualche caso c’era pure il tentativo di coprire i misfatti, con un colpo di scopa come fatto da Morandi anche se poi tutto rientra nello spettacolo. Sotto sotto, par di capire, l’obiettivo era smuovere qualcosa che saldasse il gap generazionale fra i giovani e i tanti passatelli. Una cerniera-lampo per unire sul palco cento anni di musica italiana e ribadire al mondo che prosegue l’antico stereotipo degli  italiani all’estero: “mafia e mandolino”. 

    Anche senza mandolino continua la musica. Quanto alla mafia, anche senza coppola e con capi e capetti in galera al “41 bis”, si può forse annunciare che è finita. Sulle generazioni lasciamo perdere. Il primo giovane, con titolo da vincente già acquisito sullo stesso palco l’anno precedente, è stato un imbarazzante disastro. Non solo per lui ma per tutti gli organizzatori, i presentatori, l’economia florovivaistica regionale e per un’intera generazione giovanile che attendeva un frammento di palco e un momento di gloria.

    Patetico anche il gran parterre di vecchie glorie, di premi alla carriera, alla criniera e al gerontocomio. Amarcord di ciò che siamo stati, nostalgie del passato, cantanti attempati sostenuti in piedi ed esposti come cimeli di un’Italia che protegge anche un patrimonio sfatto dagli anni, claudicante e traballante. Come non citarne alcuni: Gianni, Massimo, Peppino, Gino, Ornella per passare poi a Tananai (Elodie, Levante, Fenteelcaffè) i Modà, Colapesce Dimartino, Lazza, Coma_cose, Ultimo, Colla Zio. Una fantasia esasperata, difficile da memorizzare a meno che non si chiami Mengoni, che in Trentino, dove abbiamo avuto un presidente della provincia e un provveditore agli studi con lo stesso cognome, ha fatto scattare subito l’empatia. E gridare: “Meno-male, l’è dei nossi”. Torno ad altro che più mi intrigava capire. 

    Nei Tg serali e nei commenti politico-elettorali, nei salotti dei dibattiti da chiacchiericcio serale e seriale si vociferava che questo festival fosse la sublimazione della dissolutezza dei costumi, della cultura lasciva, lassista e sinistrorsa; degli stili di vita da reddito di cittadinanza, del fancazzismo fatto virtù, della diffusione del sesso liquido e confuso. Ho sentito orpelli ed appelli, ma anche sermoni dal palco di Sanremo, spesso a tema con chi li esprimeva: a sostegno delle donne, contro il razzismo e, coi carrarmati spenti e ore dopo carosello, anche contro la guerra. Ma con un aiutino a vincerla. Se li vogliamo catalogare con alfabeto politico, c’erano argomenti da prima e dopo la mezzanotte. Passati dal timbro di accettazione e compatibilità con la linea governativa o ribelle e di opposizione sinistrorsa e malefica. Ho notato un cantante, un ragazzino elegante e a modo, salito sul palco con due fiori: uno giallo e uno blu. Uniti erano l’omaggio ad un popolo, credo, ma nessuno lo ha considerato. Ha posato i fiori a terra, è finita la canzone. Con fare lesto e silenziosamente tutto è stato rimosso. In questo caso, magari per non disturbare qualche vecchio cantante, ora leader politico. 

    Non ho visto nulla di tutto quello che mormorano. Sarò un po’ superficiale, ma ciò che ho visto era tutto ciò che, probabilmente, a Sanremo viene sempre messo in scena. Sanremo vien fatto per la gente normale, non per i papaveri e le papere come neppure per la colomba bianca divenuta balena che volava o governava. Ecco qualche ministro che chiede la testa dei vertici Rai, l’esilio per i conduttori, la radiazione del “costituzionalista” Benigni, una norma che regoli le uscite di Mattarella dal Quirinale. 

    Il festival di Sanremo è stato soprattutto questo: la raffigurazione del caos Italia; miserie e lustrini giovani e vecchi; famiglie tradizionali, con moglie e figli in prima fila; altri con harem al seguito, spesso rinnovato ma ben nascosto come una ruota di scorta; bande musicali e “banditelli” di quartiere. Costumi sessuali antichi e latini, altri, all’apparenza moderni eppure antichi di origine greco-latina: baci e linguine fra uomini; donne che si amano; benpensanti che si scandalizzano e che magari lo vivono in prima persona, non esclusa l’ombra dei sacri palazzi.

    Questo è il festival di Sanremo che ho visto e percepito. Classifiche, palme, premi, compensi e trasmissioni di commento e di commiato sono serviti a far sbollire il clima. 

    I risultati elettorali del giorno dopo hanno anticipato ciò che già cuoce nella cucina di casa nostra: solo musica tirolese, peraltro ammessa col contagocce. In tavola un menù già scritto: speck e meloni.

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    Pier Dal Rì

    Pier dal Ri’, 72 anni, già dirigente della Provincia autonoma di Trento, dove ha operato in molti campi e dirigente del servizio trasporti, dello sport e del servizio ripristino e valorizzazione ambientale. Ha avviato la rete di piste ciclabili e tutti i servizi di supporto (bici grill, aree di sosta) e manutenzione costante con l’impiego di personale in mobilità. Ha collaborato con il giornale “Alto Adige” e poi con il “Trentino”, con lo pseudonimo “erpi” curando la rubrica “graffiti”. Suoi contributi son apparsi su varie riviste e testate per commentare temi di costume ed attualità. Da pensionato fa il coltivatore diretto, curando i propri vigneti a Mezzocorona dove é nato, cresciuto e si è formato, fino al trasferimento a Milano per frequentare e ottenere la laurea in architettura.

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