Solo dopo l’approvazione, con voto quasi unanime del Parlamento italiano, della legge istitutiva del “Giorno del Ricordo” nel 2004 per “Conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”, che si solleva il telo che per sessant’anni aveva tenuto nell’oblio questa importante parte della storia italiana ed europea. Quali i motivi e le ragioni per nascondere e tacere sulla tragica conclusione della seconda guerra mondiale per la popolazione italiana dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia? Lo spiega a iltrentinonuovo.it il giornalista pubblicista Roberto de Bernardis, sociologo, esule giuliano-dalmata a cinque anni, approdato a Trento dove si è laureato in Sociologia e dove ha svolto l’attività lavorativa quale funzionario della Regione Trentino-Alto Adige.
Con la firma del trattato di pace il 10 febbraio 1947 e il Memorandum di Londra del 1954 l’Istria, Fiume e la Dalmazia entrano a far parte della Federazione Jugoslava mentre Trieste viene assegnata all’Italia con il definitivo consolidamento di questa linea di confine con il trattato di Osimo del 1975 tra Italia e Jugoslavia.
Da qui nasce il primo tassello che compone il mosaico di fatti che portano a non far conoscere quello che accadde sul confine orientale d’Italia: la evidente verità che l’Italia aveva perso la guerra e che come tale pagava il prezzo dei territori perduti. Certo questo cozzava contro la retorica che avrebbe voluto far apparire l’Italia tra i vincitori grazie alla guerra di liberazione del movimento partigiano.
Poi ci sono le ragioni del Partito Comunista Italiano che non poteva raccontare le atrocità compiute da un paese socialista anche a guerra finita e le epurazioni attuate dei dissidenti alla nuova linea di sganciamento di Tito da Stalin decisa nel 1948 dopo che Togliatti aveva esaltato la bontà del nuovo regime e appoggiato le pretese jugoslave con l’offerta di dare a Tito anche Gorizia in cambio della sola Trieste, come per il caso dei cosidetti “monfalconesi”. Si trattava di un gruppo di tecnici e operai dei cantieri navali di Monfalcone del PCI che si erano trasferiti in Istria per sostenere la “rivoluzione socialista” jugoslava ma che nel momento in cui si erano dissociati dalla linea di rottura con l’Unione Sovietica decisa da Tito sono stati oggetto di persecuzioni e internamento nell’isola Calva (Golj Otok) dove in molti trovarono la morte a seguito delle sevizie subite. Quelli che riuscirono a sottrarsi all’arresto ritornarono a Monfalcone ma non poterono raccontare questa vicenda: il PCI impose loro il silenzio. Solo la storiografia più recente ha raccontato questa tragedia.
C’è poi una ragione di carattere internazionale, legata alla rottura di Tito con Stalin, che nel panorama della guerra fredda fa decidere al mondo occidentale di mantenere buoni rapporti con la Jugoslavia e di non infastidire Tito. Molti ritengono di poter affrontare la complessa vicenda del confine orientale con una semplice equazione che fa discendere tutto quanto accaduto tra il 1943 e il 1947 come una risposta alle violenze nazifasciste e alla guerra di aggressione alla Jugoslavia e quindi quanto avvenuto trovi in questo rapporto la sua giustificazione. Certo le violenze del nazifascismo vanno condannate e vanno ricercate le responsabilità ma la storia successiva non è solo, se non in minima parte, il frutto di una vendetta ritorsiva ma di un disegno politico, sociale, culturale ben più ampio.
Le ragioni che determinarono il dramma del confine orientale nel secondo dopoguerra si possono individuare nella volontà espansionistica del nazionalismo titino che, per raggiungere lo scopo, aveva deliberatamente attuato una politica di “pulizia etnica” in modo da far sparire o fortemente comprimere la componente italiana della Venezia Giulia. Una componente storica e maggioritaria su buona parte della penisola istriana, soprattutto nella parte costiera, saldandosi con la propaganda ideologica della nuova società comunista che Tito voleva edificare indicando la popolazione italiana come nemico da debellare in quanto fascista e classe dirigente.
Kardelj, braccio destro di Tito, viene inviato in Istria per risolvere la “questione italiana”: uccisioni e migliaia di corpi gettati nelle foibe caratterizzano questa fase, epurazione degli stessi capi partigiani che si schierano per mantenere l’italianità delle principali città istriane a maggioranza italiana.
La ventata di violenza che si protrae anche negli anni successivi alla fine della guerra avrà il suo culmine nella strage di Vergarolla a Pola il 18 agosto 1946 con più di 70 vittime dove vengono sterminate giovani vite, famiglie intere intente a partecipare alla gara natatoria della società polese “Pietas Julia”. È un colpo durissimo per tutta la popolazione che non si sente più al sicuro e inizia ad organizzare l’esodo.
Con la firma del trattato di pace del 10 febbraio 1947 e la cessione dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia alla Jugoslavia, la popolazione italiana inizia un esodo massiccio, lungo, doloroso e straziante: più di trecentomila persone abbandonano la loro terra per mare, con mezzi di fortuna, a piedi. La vicenda di Pola è emblematica: il novanta per cento della popolazione lascia in pochi mesi la città con la motonave Toscana e altre navi. È un esodo biblico!
Ci sono le storie diverse di migliaia di persone che vanno nei campi profughi sparsi in tutta Italia o che scelgono le vie dell’Australia o delle Americhe. Persone con vissuti tragici: hanno visto uccidere il loro marito, il loro padre, il figlio, il fratello, la sorella. Hanno subito la frantumazione sociale e familiare. Molte famiglie rimangono nei campi profughi per anni prima di poter trovare un lavoro e una casa adeguati. I campi profughi sparsi in tutta Italia sono in genere caserme adattate ad ospitare questa ondata di esuli con cameroni divisi da teli in cui per ogni sezione viene sistemata una famiglia.
L’accoglienza molto spesso è piena di diffidenza e ostilità e la carica ideologica della propaganda del partito comunista, che indica tutti i profughi come fascisti, alimenta questi sentimenti e provoca azioni indegne come a Bologna dove viene indetto uno sciopero per fermare un convoglio ferroviario che trasportava i profughi e impedire l’approvvigionamento delle famiglie con molti bambini bisognosi di cibo, latte, acqua.
Per 60 anni hanno tenuto per sé questo enorme dolore, non hanno avuto la possibilità di ottenere giustizia. L’Italia ha pagato con i beni abbandonati dei profughi i danni di guerra alla Jugoslavia e non ha mai completato la promessa di risarcire con equità questa perdita di beni costruiti a volte con secoli o con decenni di faticoso lavoro.
I risarcimenti che la Jugoslavia, ed ora Croazia e Slovenia, avrebbe dovuto liquidare all’Italia per i beni espropriati fuori dal pagamento dei danni di guerra devono essere ancora definiti (solo la Slovenia ha consegnato a una Banca Svizzera un importo non ritenuto equo dall’Italia e pertanto non ritirato).
Per più di mezzo secolo ragioni politiche nazionali e internazionali hanno messo un coperchio su questa parte della storia italiana ed europea e impedito anche una ricerca storiografica approfondita e una ricostruzione veritiera. Solo vent’anni fa, con l’istituzione del “Giorno del Ricordo”, Legge n. 92 del 30 marzo 2004, con voto quasi unanime del Parlamento italiano si sviluppano nutrite pubblicazioni di memoria e storiografiche e si sviluppano numerose iniziative istituzionali di informazione e divulgazione anche sui media (riviste, giornali, programmi radiotelevisivi, internet).
Nel 2020 con un gesto di grande significato i presidenti italiano Mattarella e sloveno Pahor rendono omaggio alle vittime delle foibe a Basovizza (Trieste). È il primo riconoscimento sloveno di quanto accaduto, con la speranza che possa seguirlo anche la Croazia. A gennaio del 2021 c’è la designazione ufficiale di Gorizia e Nova Gorica quali “capitale europea della cultura” per il 2025 superando quel confine spinato che aveva spaccato la città in due parti, creando anche due entità amministrative diverse in ambiti nazionali diversi.
Allora ricordare significa risarcire moralmente coloro che hanno subito tutto questo, rendere patrimonio comune le storie delle centinaia di migliaia di persone, che possono solo oggi raccontare la loro tragedia, che possono offrire una lezione di dignità, fiducia e speranza in una vita migliore e definire finalmente una verità storica per troppo tempo negata. Ricordare vuol dire anche riflettere su quanto accaduto per non ripeterlo, per renderlo storia riconosciuta, per insegnare alle giovani generazioni la pericolosità delle esasperazioni nazionalistiche ed ideologiche e del labile confine tra bene e male che purtroppo gli uomini spesso dimenticano.