Nella sterminata letteratura relativa alla Shoah, alcuni brani, come il “Diario di Anna Frank” spiccano e sono ovunque famosi. Film, televisione, teatro e quant’altro hanno offerto uno straordinario contributo di diffusione, anche arrivando però e paradossalmente ad oscurare altre e fors’anche più significative memorie, come nel caso del “Diario” di Rutka Laskier, una ragazzina ebrea polacca inghiottita dal male. Quelle pagine, ritrovate quasi per caso nel 2006 sotto il pavimento della casa di un’amica di Rutka, sono di una straordinaria forza narrativa e di una consapevolezza che sbalordisce, in una ragazzina adolescente.
Rutka sa che morirà, come lo sanno i suoi amici che vivono nel ghetto. Non si nasconde. Non spera in nulla. Sa tutto delle camere a gas; ogni giorno vede sparire persone conosciute e tocca con mano la morte violenta e casuale in strada.
Il racconto si apre il 19 gennaio 1943, quando Rutka scrive: “Mi sembra impossibile che sia già il 1943, il quarto anno di quest’inferno. Le giornate scorrono una identica all’altra. Ogni giorno la stessa noia odiosa e viscida. In città però c’è una grande agitazione. Molti devono partire per il “paese degli antenati” in Palestina. Anche noi speriamo di ricevere i documenti.”
Ma non arriva nulla e su tutto aleggia il terrore della guerra, della deportazione e dei Campi di concentramento. Il 5 febbraio le pagine di Rutka ospitano questa riflessione: “Il cerchio si stringe sempre più. Il mese prossimo avremo già il ghetto con mura e mattoni. D’estate sarà insopportabile starsene chiusi in una gabbia grigia e soffocante e non vedere i campi e i fiori e questo mi fa venire in mente che non sarà più possibile passeggiare per via Malachowska senza venire deportati. Mio Dio, mio Dio cosa ci succederà? Rutka devi essere diventata matta: ti rivolgi a Dio come se esistesse. Quel poco di fede che un tempo possedevo è svanito del tutto; se Dio esistesse certamente non permetterebbe che la gente sia gettata viva dentro i forni, che ai bambini piccoli si spacchi la testa con il calcio dei fucili, che li si chiuda nei sacchi e li si faccia morire con il gas.”
Come si evince, Rutka è pienamente consapevole di ciò che sta accadendo. Lei, ragazzina, sa già quale destino attende la sua gente e lo descrive in una delle pagine più forti e tremende dell’intero “Diario”: “Ho sbirciato attraverso lo steccato e ho visto i soldati con i fucili puntati in direzione della piazza, in caso qualcuno tentasse di fuggire (e chissà dove mai si sarebbe potuto fuggire). La gente sveniva, i bambini piangevano, una sorta di giorno del Giudizio. Si moriva di sete e d’acqua neanche una goccia e il caldo era terribile. Poi di colpo ha preso a diluviare e mentre la tempesta infuriava sulle nostre teste, i poliziotti picchiavano e sparavano senza pietà.”
E’ un quadro crudo e reso eloquente dal racconto di una ragazzina di soli quattordici anni che vede, ancora quella sera, un nazista che sbatte la testa di un bambino contro un palo ed al suo “Diario” confessa: “Scrivo come se non fosse successo nulla, come se fossi già avvezza alle crudeltà dell’esercito, ma io sono giovane, ho quattordici anni e ancora non ho visto tanto in vita mia e sono già così indifferente.”
Ma la sua paura emerge nelle ultime pagine. I tedeschi stanno ritirandosi e la fine della guerra sembra vicina e questo le fa temere che saranno gli ebrei a “finire prima”. Scrive Rutka: “Cerco di sfuggire ai pensieri sul domani. Nonostante tutti questi orrori si ha pur sempre voglia di vivere, di aspettare il domani che per noi significa comunque Auschwitz o il Campo di lavoro.” Qualche pagina dopo, cerca di farsi forza sognando di “volare laggiù dove non c’è il ghetto e non ci sono i soliti ebrei.”
Invece tutto precipita nel ghetto di Kamionka e così, nell’ultima pagina, Rutka scrive: “L’inverno, per la maggior parte degli abitanti del ghetto, è lo spettro della miseria e della fame. Bambini vestiti miseramente tendono la mano ai passanti. Questi bambini sono il marchio del grigio ghetto. I genitori deportati ed i bambini, lasciati alla mercè della sorte, vagano per strada. Di colpo un grido. Un agente ha colpito un vecchio cadente, quello è scivolato e ha battuto la testa contro un sasso che sporgeva. La bianca neve si è intrisa di sangue color porpora.”
Poi più nulla. Deportata ad Auschwitz alla fine del ‘43, vi muore un mese dopo. Se qualcuno sa ancora pregare, ricordi Rutka Laskier, di anni quattordici, morta ad Auschwitz solo perché esisteva.