Che cosa rimane della memoria della Shoah, dell’Olocausto di sei milioni di esseri umani sterminati dai nazisti negli anni cruciali e crudeli della seconda guerra mondiale? Chi conosce e riconosce ormai le “storie”, e ogni vita è una storia, di coloro che sfidarono gli assassini con la svastica per salvare almeno qualcuno dei predestinati alla camera a gas? Prima di proseguire nel racconto che Renzo Fracalossi tiene vivo per i lettori di questo foglio liquido, dobbiamo dar conto di ciò che lo stesso produce ogni anno, da 18 anni, per i giorni della memoria. Una pièce teatrale, di teatro civile, che scavi nelle coscienze e getti semi di cultura.
Così, da martedì 24 gennaio, alle 20.30 nella sala della biblioteca di Cles, per proseguire a Sella Giudicarie, Aldeno, Pinzolo e Cembra per approdare al teatro Cuminetti di Trento venerdì 27 gennaio, le attrici e gli attori del “Club Armonia” porteranno in scena “Un libro di sangue”. Renzo Fracalossi mette a confronto la persecuzione antigiudaica nella Spagna del XV secolo (gli ebrei sefarditi costretti con le torture alla conversione alla religione cattolica) e l’antisemitismo nazifascista tedesco e italiano del XX secolo. “Un libro di sangue” approderà infine, il 26 febbraio a Torino, presso la sala della Comunità ebraica. L’autore e regista, Renzo Fracalossi, spiega che la malapianta dell’antisemitismo non è cresciuta e marcita nel XX secolo. Le radici riaffiorano ancora. Ed è per questo che la memoria di ciò che fu serve anche da antidoto per contrastare ciò che, diversamente, potrebbe essere o sarà. (af)
(2) Ladri e puttane: l’Italia migliore
A breve ricorderemo il “Giorno della Memoria”. Ricorderemo fin dove può arrivare l’uomo che rinuncia a sé stesso e quanto infinito può rivelarsi l’abisso dell’orrore che l’odio produce. Per decenni abbiamo finto di non sapere. Abbiamo nascosto la parte sporca della nostra storia, gettandola come polvere sotto il tappetto del tempo. Abbiamo divulgato l’incredibile narrazione degli “italiani, brava gente”, incapaci di pensare e fare il male ed in questo modo abbiamo deformato la storia. Non abbiamo fatto i conti con la memoria ed abbiamo costruito una falsa coscienza nazionale, che ha permesso anche l’attuale riaffacciarsi politico degli eredi di ideologie che speravamo sepolte per sempre.
Ma in mezzo a tanto lezzo, soprattutto durante l’occupazione tedesca del nostro Paese (l’Italia) a seguito della resa dell’8 settembre 1943, ci sono stati molti, moltissimi episodi luminosi, di coraggio e di generosità solidale. Come sappiamo della pavidità di Pio XII e di una sua certa “collateralità” al nazifascismo quale baluardo all’avvento del comunismo, conosciamo anche l’ospitalità cristiana di conventi, abbazie e chiese dove si salvarono ebrei, resistenti, soldati in fuga e piloti alleati. Storie di una umanità preziosa e che, in parte, riscattano molti atteggiamenti e connivenze di potere. Nel vagare dentro queste storie, solo apparentemente minori, ci si imbatte spesso in vicende straordinarie, come quelle successe nella “città eterna” sotto il tallone della svastica.
Il 16 ottobre 1943 i tedeschi rastrellano il ghetto di Roma, il più antico della Diaspora. Cercano gli ebrei e ne raccolgono ben 1024, fra i quali oltre 200 bambini. Di tutti loro tornano da Auschwitz in sedici, fra cui una sola donna e nessun bambino. Famiglie intere sterminate, palazzi svuotati e persone che spariscono nel nulla dell’odio. Ma a Roma in tanti sanno di quella retata. Lo sanno i fascisti e lo sa Mussolini, al quale fanno visita il giorno prima il comandante in capo delle SS in Italia, il gen. Karl Wolff e il console generale Möllhausen, sicuramente accennando all’operazione prevista per l’alba seguente. Lo sa anche l’ambasciatore tedesco presso la Santa Sede e lo sa la Polizia italiana. Molti sanno, ma nessuno muove un dito.

Eppure alcuni romani non dimenticano di essere uomini
Al Testaccio, un quartiere popolare e “rosso”, c’è un palazzo che al pian terreno ospita l’officina di uno sfasciacarrozze. Al piano superiore invece è attiva una “casa di tolleranza”. Nulla di pretenzioso, ma un certo giro d’affari testimonia della “produttività” del bordello. La famiglia dello sfasciacarrozze è ebrea e la figlia più giovane, quando i nazisti scatenano la caccia al giudeo, si rifugia in quell’appartamento del primo piano. La tenutaria è una donna navigata, ma è anche una persona di eccezionale coraggio. Sa di rischiare la vita, ma nasconde comunque nel “casino” la giovane ed i suoi familiari. Le sue ragazze sanno e tacciono. La sera, quando le attività nella “casa” fervono e i tedeschi cercano le “italienischen Fräulein”, la “maitresse” chiude i suoi ebrei in uno sgabuzzino, imponendo un rigido silenzio assoluto. La vicenda si prolunga per alcune settimane, fino a quando la famiglia ebrea riesce a fuggire da Roma e rifugiarsi in campagna, salvandosi dalla furia cieca che uccide e deporta.
Pellegrino Zarfati è un ebreo romano. Soffre d’insonnia. All’alba del 16 ottobre vede dalla finestra l’arrivo dei camion tedeschi al Portico d’Ottavia e capisce. Sveglia i suoi e fuggono sui tetti. Ma come fai a sopravvivere sui tetti di Roma? Zarfati conosce uno che è noto per essere un ladro provetto, il più famoso del quartiere, uno anche “facile di coltello”, uno che non scherza. Pellegrino cerca il ladro e gli propone uno scambio: il poco oro rimasto alla famiglia e sfuggito alla “colletta” imposta alla comunità ebraica per evitare la deportazione, in cambio di denaro con il quale organizzare una fuga decente. I ladri, quelli veri, sono professionisti poco loquaci. Rubano, rivendono ai ricettatori e ricominciano a rubare. Non c’è alcun bisogno di parlare oltre il minimo necessario. Hanno però un loro strambo “codice d’onore”. L’oro viene rifiutato, ma il denaro viene messo comunque in mano a Pellegrino. È forse una somma maggiore dell’equivalente in oro. Pellegrino ringrazia ma sostiene di non sapere se sarebbe mai riuscito a tornare a Roma e nemmeno se sarebbe sopravvissuto, lui e la sua famiglia. L’uomo cha ha di fronte lo guarda e poi parla. Poco. Il minimo indispensabile: “A Zarfà’ tu te devi tornà. I sordi me li devi rida’ proprio tu. Vai!” Così, Pellegrino Zarfati ed i suoi non “passano per il camino”.
Emanuele Di Porto è un ragazzino ebreo di dodici anni. Quando arrivano i tedeschi al ghetto, la madre gli ordina di chiudersi in casa. Lei corre ad avvisare il marito che lavora alla Stazione Termini. La donna esce di casa, fa pochi passi e poi i tedeschi la prendono e la caricano sul camion in attesa. Emanuele, nel frattempo, ha disubbidito ed è sgusciato fuori casa. Vede l’arresto della madre, costretta a salire su quei maledetti camion. Il ragazzino corre da lei e sale anche lui, con la sua mamma. Mani pietose lo spingono giù. Il camion parte ed Emanuele guarda l’orizzonte dov’è sparita sua madre per sempre. Non sa cosa fare e sale su di un tram e racconta, quasi in “trance”, al tramviere ciò che sta accadendo al ghetto. Per due giorni interi, Emanuele rimane seduto accanto al bigliettaio del tram. Cambiano i turni, ma tutti tengono lì quel bambino solo e disperato e che nessuno conosce. Rischiano perché lui è un giudeo. Rischiano, ma la pietà della povera gente è più genuina e forte dell’odio degli assassini. Emanuele vale tremila lire, ma a nessuno viene in mente di tradire ed il piccolo si salva.
Puttane, ladri, povera gente: l’Italia migliore in quel momento d’orrore. L’Italia della quale andare fieri, ancor oggi. Shalom!