Per molti anni, in sede regionale ma non solo, è prevalsa una interpretazione del periodo fascista, prima, e nazista, poi, volta a collocare l’Alto-Adige/Südtirol nell’esclusivo ruolo di vittima e perfino di oppositore del regime hitleriano, in nome della sua forte identità cattolica. Una pesante coltre di oblio è scesa su quegli anni, nella convinzione che “dimenticare” equivalga a “cancellare”, archiviando quindi l’ampio e diffuso sostegno sudtirolese al nazismo, alle sue strutture di potere e di repressione poliziesca ed alle vie di fuga per i criminali di guerra.
Si tratta di un errore non irrilevante e reso ancor più evidente dal fallimento di questa “strategia della dimenticanza” che, per i primi decenni postbellici, ha caratterizzato anche l’atteggiamento della Germania verso il proprio passato. Solo negli anni Novanta del secolo scorso la polvere è stata tolta dalla storia, rivelando ai tedeschi – e con essi al mondo intero – l’insieme delle complicità e delle partecipazioni di massa all’orrore nazista.
In quegli anni, anche nuove sensibilità ed una storiografia più oggettiva e documentata hanno riconosciuto la dimensione della collaborazione sudtirolese al regime, attraverso l’approfondimento di storici della portata di Steinacher, Steurer, Heiss e Steininger. I quali, rimettendo ordine nella narrazione, hanno evidenziato il ruolo avuto da questi territori nell’allestimento e copertura delle varie “Rattenlinien” e nell’attiva partecipazione sudtirolese alle attività dei nazisti in Italia.
Come forse noto i Servizi segreti tedeschi hanno iniziato a monitorare l’Italia ben prima dello scoppio della guerra. Si tratta di azioni segretissime, per non allarmare Mussolini e per non incrinare i rapporti di amicizia già in essere con la firma dell’“Asse Roma – Berlino”. In tale contesto gli uomini dell’“Abwehr” – il Servizio segreto militare – e del “Sicherheitsdienst” (SD) – il Servizio di informazioni delle SS – registrano anche la forte sofferenza degli altoatesini di lingua tedesca, oppressi dal fascismo, a partire dal 1922 ed il crescente stato di odio che la politica mussoliniana di forzata italianizzazione dell’Alto-Adige ha provocato.
In ossequio agli accordi raggiunti con il duce, Hitler rinuncia ad ogni rivendicazione pangermanista ed accetta, invece, l’idea del trasferimento nel Reich dei cittadini di lingua tedesca, ai fini del ripopolamento dell’Europa orientale conquistata. I sudtirolesi sono quindi messi davanti a una scelta dirimente: rinunciare alla loro terra emigrando (i “Deutschland Optanten”) o abbandonare la loro identità linguistica e culturale rimanendo (i “Dableiber”).
È in questo clima e nel processo di forzata italianizzazione dell’Alto-Adige che matura l’adesione di massa dei sudtirolesi alla “causa tedesca”.
Con la resa italiana, i tedeschi invadono la penisola, occupando anzitutto il Südtirol. In poche ore i funzionari italiani vengono cacciati; i Carabinieri disarmati e i soldati internati. Il territorio diventa il primo lembo dello Stato italiano completamente sotto il controllo tedesco. Due giorni dopo all’hotel Greif di Bolzano si insediano i generali Wolff e Harster, rispettivamente il vertice delle SS in Italia ed il responsabile della sicurezza. Harster arriva a Bolzano con alcuni dei suoi più stretti collaboratori. Fra questi, l’avvocato bolzanino Walter Segna, che dirige una scuola di spionaggio per agenti italiani dell’SD ed ha un ruolo non secondario nella vicenda Ciano e l’avvocato Franz von Aufschneiter, in qualità di esperto legale del SD, nonché il dott. Gustav Ghedina di Salorno.
Poco dopo, Harster sposta il suo comando a Verona e stende una rete di sedi del SD in tutto il settentrione italiano, pur dovendo far fronte ad una cronica carenza di personale. Come ovviare? È in quest’occasione che i sudtirolesi si rivelano preziosi: parlano l’italiano; svolgono compiti di traduttori; si infiltrano; conoscono il modo di pensare ed agire italiano, ma non solo. Molti si arruolano nei reparti di Polizia tedesca, al punto che, a Belluno, il Servizio di sicurezza annovera figure come Karl Tribus di Lana, Karl Lanznaster di Bolzano, Ludwig Pallua di Brunico e Willy Niedermaier di Appiano. Quest’ultimo rivela una particolare ferocia, dapprima nel rastrellamento degli ebrei di Merano e poi nella repressione della Resistenza. A guerra finita e solo nel 1963, viene riconosciuto colpevole di “violenza con omicidio, sequestro di persona, lesioni e distruzione” nei riguardi dei partigiani bellunesi e quindi condannato all’ergastolo seppur contumace. Fuggito dal campo di prigionia di Rimini, attraverso una “Ratlinie” sparisce, presumibilmente in America latina, facendo perdere ogni traccia.
A Firenze, prima, e a Padova, poi, agisce la “banda Carità”, ovvero il “Reparto Servizi Speciali”, guidato dal maggiore Mario Carità e subordinato allo SD, che si occupa di lotta alla Resistenza e di arresti e deportazioni degli ebrei, anche avvalendosi di metodi crudeli e sadici. Il tramite fra i tedeschi e la “banda Carità” è costituito da sudtirolesi come Dominik Moroder, Eduard Niedermayr, il poliglotta Anton Rabanser e i gardenesi Anton Riffeser e Martin Demetz. Costoro non si occupano solo di traduzioni ma esercitano attività di polizia, interrogano, torturano e uccidono.
Due figure risaltano e sono quelle di Rabanser e Moroder. Il primo, dopo aver optato nel 1939 per la Germania, nell’estate del 1940 frequenta un corso sull’ideologia nazista, a Ordensburg, per la preparazione dei futuri quadri dirigenti del gruppo etnico sudtirolese. Nel 1942 arriva ad Hallein, in qualità di responsabile del Campo di raccolta dei “Fersentalers”, cioè dei Mòcheni che hanno optato per il Reich. Nel 1943 torna in Italia al seguito delle SS, diventando anello di collegamento con la “banda Carità” ed operando a Firenze e a Piacenza insieme a Moroder. Dopo la guerra sparisce in Sudamerica e di lui non si sa più nulla.
Dominik Moroder è forse il più famigerato fra i sudtirolesi delle SS. È un uomo abile nel non comparire mai in veste di protagonista. Si muove dentro la lotta antipartigiana, partecipa a rastrellamenti e fucilazioni, perseguita gli ebrei fiorentini e si macchia di parecchi omicidi. Con la fine della guerra, Moroder si nasconde dapprima nella natia Ortisei e poi nel convento dei Cappuccini a Bolzano. Nell’agosto del 1950 riesce a fuggire attraverso le “Rattenlinien” e approda nella roccaforte nazista di San Carlos de Bariloche, in Argentina, dove lo raggiunge sua moglie “Annerle” con i due figli. Torna più volte in Sudtirolo, probabilmente per vendere le sue proprietà e poi rientra in Argentina dove gestisce una fiorente attività imprenditoriale, al punto che, nel 2007, una testata turistica della Val Gardena, “Gardena Magazine”, scrive: “La lista dei valligiani che si sono distinti professionalmente all’estero continua con Anna Moroder e Domingo Beruel che si sono stabiliti a Bariloche. I loro figli hanno fondato una delle maggiori aziende di successo argentine nella produzione del cioccolato.”
È molto probabile che Domingo Beruel sia Dominik Moroder, posto che Anna Moroder è sicuramente “Annerle”, la moglie di Dominik. Nel 1951, il Tribunale di Lucca condanna all’ergastolo Moroder, contumace, e Rabanser a trent’anni di reclusione. Per inciso, va ricordato come la Val Gardena ha tradizionalmente ottimi contatti con San Carlos de Bariloche. Entrambi fanno parte del “Club Big Five”, cioè un ristretto circolo di rinomate località sciistiche, insieme a Garmisch, St. Moritz, Kitzbühel e Val d’Isère. Moroder muore nel 1962 in un infortunio sul lavoro a Bariloche.
La convinzione che l’unità del gruppo etnico tedesco debba essere preservata con ogni mezzo, sempre e comunque ha fin qui impedito al Sudtirolo di fare memoria della propria storia e di riconoscere gli errori del passato. Ritenere ancora “patrioti” quei nazisti che si dimostrarono anche antifascisti ed antitaliani non aiuta la costruzione della memoria ed anzi contribuisce a seppellirla sotto il marmo della storia.
(11 – continua; le precedenti puntate sono state immesse in rete il 1, 11, 17, 25, 30 settembre; 8 e 15 ottobre; 2, 14 e 20 novembre 2022)